TERRITORI LONDINESI
“We need to be as good as we know we are”. È il debutto del suo nuovo attesissimo gruppo, e con solo quattro canzoni ancora in scaletta, dopo quasi un'ora di ovazioni, Damon Albarn ha appena bloccato tutto. La nervosa e intricata Three Changes si è come spenta, con lui a dire al microfono che quel pezzo lo stavano suonando di merda e avrebbero potuto farlo molto meglio. Non arrogante, anzi carico come un capitano che sprona la sua squadra, e anche se sta vincendo 4-0 il gol non lo vuole prendere lo stesso. Che squadra, tra l'altro: Paul Simonon è Paul Simonon, aggiungiamo solo che si dimostra l'unico qui in giro capace senza apparente sforzo di essere più figo di Albarn stesso. “Senza Tony Allen non ci sarebbe l'afrobeat”, ebbe a dire del sessantaseienne batterista il suo vecchio capobanda Fela Kuti, e la portata della frase dovrebbe stendervi anche se ascoltate solo indie-pop neozelandese. Simon Tong è quello con il curriculum meno chiassoso – robetta tipo chitarrista dei Verve, quarto Blur dal vivo nel dopo-Coxon, collaboratore dei Gorillaz – ma buttalo via. Sono quattro galacticos in piena modalità “sala prove”, ed è uno dei due o tre picchi di una serata di per sé già memorabile. La Roundhouse di Camden, inutile dirlo, tributa all'episodio un'ovazione ancora più rumorosa delle precedenti. La band senza nome riparte di slancio, Three Changes viene benissimo, l'ennesimo cambio di pelle di Damon Albarn è l'ennesimo trionfo.

The name of this band is…
La band senza nome, dicevamo. Perché The Good, the Bad and the Queen è, come i protagonisti tengono a precisare, solo il titolo dell'album. Un lavoro i cui semi vengono gettati a Lagos nel 2004, con Tong e Albarn volati in Nigeria a registrare con la leggenda Allen e altri musicisti locali, e un album intero che ne viene fuori. Si mette di mezzo Demon Days e la cosa va in pausa, ma quando ci ritorna su Albarn si scopre insoddisfatto dei risultati. A bordo sale allora Brian Burton detto Danger Mouse, produttore di grido se mai ce n'è stato uno e mezzo Gnarls Barkley, ma è quando viene coinvolto il bassista dei Clash che un nuovo disco imperniato su Londra Ovest comincia a nascere dai resti del precedente. Pare sia stato proprio l'americano a suggerire ad Albarn di cominciare a scrivere del posto dove vive. “L'album registrato a Lagos era molto diverso – racconta Damon, seduto con i tre compagni al bar della Roundhouse qualche ora prima del concerto – per attitudine e feeling. 80s Life per esempio aveva una melodia molto simile a quella attuale, ma tutto un altro swing . E non suonava forte abbastanza con me a cantarla, meglio qualcun altro. Era come se non ci fosse bisogno di me. Ma non abbiamo avuto fretta. Abbiamo tenuto qualche base ritmica di quell'album, gettato il resto e fatto un disco nuovo. Il modo in cui suonavamo si è evoluto. Più tempo passavamo insieme, più la cosa acquistava significato nelle nostre vite. Tutto ha cominciato a riprendere forma da una serie continua di conversazioni fra me e Paul.” Che ha passato infanzia ed adolescenza fra Brixton e la stessa Londra Ovest, della quale da quel famoso pomeriggio dell'agosto 1976 al carnevale di Notting Hill potrebbe essere tranquillamente un testimonial, e nella quale oggi vive facendo il pittore. “ Abbiamo scoperto di abitare a un paio di strade l'uno dall'altro – continua Albarn – e di condividere l'interesse per la storia del luogo in cui viviamo.” “Siamo come storici locali. – continua Simonon – Continuamente ci diciamo l'un l'altro: ‘Sai cosa è successo in questa strada nel diciannovesimo secolo? E l'altro giorno?'. Abbiamo un comune interesse in questa zona. È una parte di città tutta mista, dove si sono succedute diverse classi sociali e diverse nazionalità. Se sei interessato puoi conoscere altre persone, le loro culture, il loro cibo, cosa pensano del mondo, come vivono. È un'educazione. La chiave di tutto è il mercato di Portobello Road, il punto focale dell'intera comunità, di poveri e ricchi, di tutte le diverse culture. Noi, con le nostre esperienze e la nostra mentalità, siamo prodotti del vivere lì. A Londra Ovest puoi essere scippato, puoi essere baciato, abbracciato… ”.

Non sarà l'unica perla sibilata dal nostro, arrivato con l' Independent sotto braccio e la stessa aria da signore che portava in giro nei giorni di gloria, temperata dal relax di chi ne ha viste tante e sarebbe a suo agio in un anfratto all'ombra della Westway come a un'inaugurazione di una galleria d'arte. Albarn sembra il fratello minore, di tredici anni più giovane, ancora combattuto fra caos creativo ed agi da artista illuminato. Ha giacca e camicia pure lui, un completo anzi, ma portato con un fare scazzato che tradisce l'eterno slacker dentro. Ha il cappello pure lui, la tuba anzi, ma al posto del quotidiano un sacchetto di Sainsbury's con dentro delle ciambelle che inizia ad offrire. Potrebebro essere due gangster di quartiere londinesi di una volta, entrambi vantano un bel varco tra gli incisivi e entrambi erano sulla copertina di Time Out fino a l'altroieri, fotografati da Pennie Smith. Splendido servizio intitolato con un telefonatissimo London calling! (volete mettere con un bel libro di Martin Amis?) e dedicato “alle cinquanta canzoni che hanno dato forma alla nostra città”. Herculean – primo singolo del quartetto, uscito nei negozi il 30 ottobre e fuori stampa il giorno stesso – viene piazzata un po' sulla fiducia al cinquantesimo posto, per cogliere l'occasione e parlare con quello che sulla carta è l'unico, vero supergruppo dei giorni nostri (contassimo i punti per la primiera, vincerebbe chi ha i Raconteurs o chi ha questi qua?). Roba di quella che movimenta le cronache musicali da prima che venga prenotato lo studio. Ma come suona Herculean ? Benone. Non è un singolo facile con cui presentarsi al mondo, cuoce a fuoco lento, lavora ai fianchi. Non ha ritornello, ma cori senza parole e una specie di inciso dolente che corre alle pagine più notturne ed umane dei tardi Clash. Non caschiamoci però: il gioco dei gruppi di provenienza si ferma qui. Certo il pollice destro di Simonon spinge giri profondi e spaziosi manco fossimo al Channel One di Kingston, e al mondo nessuno suona nella maniera in cui suona Tony Allen, ma se dicessimo che The Good, the Bad and the Queen suona come gli Africa 70, i Clash, i Blur, i Gorillaz e i Verve messi assieme saremmo un bel po' fuori strada. Suona invece meno multiculturale ed eclettico del previsto, e molto molto Albarn. Quello più atmosferico, riflessivo, crepuscolare. Più Blur che Gorillaz, se proprio puntate la pistola. Gli altri tre sono (per ora?) soprattutto il suo gruppo.

Raccontandoli uno per uno, Damon ha significativamente poco di nuovo da dire su Tony Allen: “Adoro Fela Kuti e gli Africa 70 da tanto tempo. Tony è semplicemente un musicista fantastico con il quale suonare.” Simonon? “Semplicemente, ha un suono . È uno dei migliori musicisti al mondo, ma di un tipo completamente diverso da Tony, per esempio. Il suo modo di suonare il basso ha un'intensità difficile da spiegare. È evocativo dei Clash naturalmente, ma suona come solo lui suona ogni volta che prende un basso in mano. È un dono più unico che raro.” Tong, il meno celebrato, si dimostra invece il più versatile del lotto. Affronta con gusto ogni piega del suono creato senza farsi notare, ma se lo togli la casa traballa. “Simon è il più tranquillo di tutti. Tende a stare… anzi, non tende, sta proprio nelle retrovie, defilato. Ma ha un talento straordinario nell'integrarsi con gli altri e nel suonare assolutamente fedele al mood che si sta cercando di creare. Ci conosciamo da anni, e gli sono grato per essersi sorbito quegli otto mesi in giro con i Blur quando Graham se ne è andato. Non lavorerei con nessun altro chitarrista, ad essere sinceri… anche perché tutti gli altri chitarristi con cui ho lavorato non lavorerebbero con me!”. E scoppia a ridere. È l'uomo che si reinventa in continuazione (“Tutti i giorni lo faccio!”), e se ha scelto come modello questo signore nigeriano che potrebbe essere suo padre, ha scelto bene: “L'importante è non essere stagnanti – argomenta uno scatenato Allen – ed è quello che ho cercato di fare in questo progetto. Ho detto ‘Cosa vuoi che faccia? Vuoi che venga lì e diventi un cabarettista?' Se mi vogliono, devono avere a che fare con i miei pattern !” Tra le risate, continua: “Più tempo passi sulla musica, più cresci. Non esiste che non progredisci. Ho fatto cose in passato che al tempo pensavo fossero eccezionali. Sentendole oggi mi dico che avrei potuto farle meglio. O che posso farle meglio adesso. ‘Perché l'ho fatto così? Oh, no! Potrei farla meglio!' Devi andare, in questo business. Devi muoverti, se sei serio e professionale. Suono da quarantasei anni, e devo migliorare. Non esiste che qualcuno mi dica ‘Tony, come hai suonato ieri era meglio di come hai suonato oggi'. Mai! Devo assicurarmi di non essere mai stagnante, noioso. E per farlo ci vuole gente che stia sulla mia stessa lunghezza d'onda, insieme alla quale muovermi. Non puoi stare nello stesso posto per sempre!”

Chi invece nello stesso posto è tornato è Paul: l'oggi ristrutturata e nuovissima Roundhouse è un luogo chiave nella vicenda Clash. Proprio nell'area che comprende anche questo splendido edificio circolare vittoriano, già scalo ferroviario e quindi centro della produzione nazionale di gin (e descritto da Dickens in Gombey and Son ), il manager Bernie Rhodes riuscì infatti a ricavare la prima sala prove della band, la storica Rehearsal Rehearsals dove Strummer e soci praticamente vivevano. Il bassista non si lascia andare troppo con i ricordi, ma lo strepitoso episodio che racconta basta e avanza: “Era il 1977, e in quel periodo c'erano molte risse per strada tra punk e teddy boys. Ricordo un concerto punk dove a un certo punto un teddy andò dal fonico e posò un mucchietto di monete sul banco mixer. Il fonico chiese per cosa fossero, e quello rispose ‘Il biglietto dell'autobus per andartene a casa, mate '.” Altri tempi, decisamente. I concerti di riscaldamento nel circondario invece, come sono andati? “Bene, – continua Simonon – sono stati interessanti anche perché nessuno conosceva i pezzi. Magari qualcuno si aspettava chitarre e bassi rumorosi, con noi a saltare dappertutto sul palco, e invece l'atmosfera era piuttosto intima.”

Molto intimo suona anche l'album, in uscita a gennaio. Collezione di dodici canzoni firmate Albarn, innanzitutto. Che citano tante cose senza che nessuna prevalga, e compongono un affresco di gran canzone inglese moderna. Racconti fatti di placida melodia soprattutto, raramente scossi dai fremiti ritmici che ci si aspetterebbe da cotanta drum and bass line , ma sempre percorsi da correnti di calore che li fanno vivi e rilevanti. Racconti che parlano di amore quasi infantile come Northern Whale (“È per la mia compagna, che stava per imbarcarsi in un intrepida vacanza al Polo Sud. Io canto di essere una balena del nord, se le capita qualcosa nuoto fin laggiù, me la carico sulla schiena e torniamo a casa”), personali come 80s Life (“Sono un ragazzo degli anni ‘80, sono diventato grande negli anni '80 e la canzone è più o meno autobiografica. Come era diventare grande negli anni '80? Pareva che volessimo davvero sbarazzarci della Thatcher e dei conservatori, e ora sembra che non ci sia nulla di nuovo…”) o inevitabilmente politicizzati come A Soldier's Tale (“Viene da Stravinsky, ma potrebbe ovviamente essere una cartolina spedita da qualcuno che è in Iraq o in Afghanistan”) e Kingdom of Doom (“Da tempo non univo temi negativi e musica vivace. Parla dell'Inghilterra, fondamentalmente: viviamo in un periodo di incredibile mancanza di consapevolezza delle nostre responsabilità”). Tutti raccolti sotto lo stesso tetto. Il buono, il cattivo e la Regina. Come a dire: le vite di noi tutti sono legate insieme, dalle strade in cui viviamo o da una tensione più impalpabile. “Il nome è un'analogia per il nostro Paese adesso. Ci trovi il buono e il cattivo. E c'è sempre la Regina. O il Presidente, per voi. Ecco, avremmo potuto chiamarlo The Good, the Bad and the Prime Minister !” Già, il Primo Ministro. Di Tony Blair vogliamo parlare? “È   ora che se ne vada. È ora che se ne vada. Blair ha perso tutta la sua autorità da quando ha mentito sull'Iraq. Basta, fine.”

E si ritorna ai fatti e misfatti della vecchia Albione. Ma anche se suona assai inglese in un modo tutto suo, The Good, the Bad and the Queen non è secondo Damon un inno triste alla Britannia che fu. Una fotografia di cosa significhi essere inglesi oggi, piuttosto. Con eroi sportivi come il pugile figlio di pakistani Amir Khan e il nazionale sikh di cricket Mudhsuden Singh “ Monty” Panesar, che gioca per la Corona con barbone e turbante. O con l'indiano chicken tikka masala affermatosi come piatto più diffuso del Regno e dichiarato di recente “Vero piatto nazionale britannico”. “La nostra nazione è un miscuglio fantastico, – conclude Albarn – risultato di una lunga e spesso brutale storia coloniale. Stiamo sperimentando le sue conseguenze in molti modi diversi. Essere britannico adesso è una lotta tra identità originale e identità futura, tra passato e futuro.”

London is the place for me
Qualche ora più tardi, una Roundhouse tutta esaurita comincia a pregustare l'evento del 26 ottobre. Electric Proms è la rassegna della BBC che lo contiene: cinque giorni di produzioni musicali inedite e collaborazioni siglate per l'occasione, in quattro o cinque posti diversi a distanza camminabile l'uno dall'altro a Camden. Primo a salire sul palco – mentre Rumore purtroppo ancora sgomita sulla Northern Line dopo una puntata all'eccezionale negozio Soul Jazz a Soho – è la leggenda del calypso George “Young Tiger” Brown. Che il soprannome se lo è guadagnato ben indietro nei suoi 86 anni, che a Londra è sbarcato nel lontano 1942 da Trinidad e che la vita dei nuovi arrivati nel Regno ha cantato con struggente fedeltà insieme a un'intera generazione di musicisti immigrati (come documentato dalla preziosa serie di compilation London Is the Place for Me , fuori sulla Honest Jon's dello stesso Albarn). Dopo di lui tocca al nuovo fenomeno urbano Jamie T, ventenne di Wimbledon che suona un po' come la fusione non sempre riuscita di Arctic Monkeys e The Streets, o come una Lily Allen con il punk-rock al posto del reggae e un sacco di caciara in più. Bisognerebbe capire tutto ciò che dice, ma la gente intorno sembra apprezzarne le rime e la verve, e l'ottimo combat rock di Operation e un altro paio di brani lasciano comunque la voglia di risentirlo su disco.

Quando Albarn, Simonon, Allen, Tong e un tastierista aggiunto si posizionano davanti a un enorme paesaggio londinese dipinto da Simonon stesso, l'eccitazione è palpabile. La gente è contenta di rivedere Damon in carne ed ossa, lui si alterna fra piano e centro del palco contento di rivedere la gente. E poi ci sono quel Fender Precision bianco e nero, con la scritta “Paul” incisa grossolanamente a mano, e quel modo di stare sul palco suonandolo. L'album comincia a scorrere secondo la scaletta definitiva, e a un primo problema tecnico al basso durante Kingdom of Doom i nostri reagiscono senza battere ciglio, con una piccola avvisaglia dell'attitudine di cui si è detto sopra: tutti fermi e via da capo. Con carica doppia, per gradire, e quando verso metà canzone Tony Allen entra deciso la somiglianza di clima e non solo con London Calling (la canzone) diventa chiara. Tendendo l'orecchio verso la linea di basso quasi ci si aspetta la sua trasformazione in quella linea di basso. Che non arriva, ovvio, ma il cuore batte forte e non sembra solo nostalgia.

Non tutte le esecuzioni sono impeccabili, si sente che pur essendo fatta di fuoriclasse la band ha alle spalle solo tre concerti. L'entrata della ritmica in Behind the Sun è un po' un pasticcio, per dire, e il successivo intermezzo vagamente afrobeat pare improvvisato non nel senso migliore del termine. Ma Mr Whippy , uno dei due lati b del singolo, ripaga con gli interessi. Albarn annuncia un ospite siriano/libanese, Eslam Jawaad. L'energumeno entra con passo solenne e pare un ayatollah, praticamente ricoperto da un lenzuolone nero. In un solo movimento velocissimo però leva tutto, e si rivela un rapper fatto e finito con cappellino, bragoni e tutto il resto . Come volesse ricordarci quanto poco ci basta, di questi tempi, per giudicare uno straniero. Visto? Sono come voi! Le sue rime in Fus'há , arabo coranico classico, mandano la gente in visibilio. A casa scopriamo che si tratta di un rapper politicizzato mediorientale tra i più popolari, progenitore di quello che ora si chiama Fus-hop . Che con un colpo di genio ha intitolato un suo disco Eslamabad (capìta?), che insieme ai fratelli di fede Salah Edin e Cilvaringz (giro Wu-Tang) ha formato il primo supergruppo rap arabo e che ora vive a Londra. L'asso nella manica, insomma.

Quando cerchiamo Albarn al telefono qualche giorno dopo lo troviamo invece ad Algeri, impegnato in un progetto del quale diciamo a parte parlando della Honest Jon's, etichetta maestra nel rifiutare barriere geografiche e culturali. C'è sempre stata questa passione per le musiche del mondo, o è una cosa relativamente recente? “È qualcosa che mi interessa da molto tempo. Sono cresciuto in una famiglia molto cosmopolita ed anticonformista, i miei genitori hanno avuto un ruolo fondamentale nel formare la mia mentalità.” Detto fatto: tornato a casa, c'è un'opera da scrivere, commissionata dal Manchester International Festival, ed ispirata ad un'antica leggenda cinese. “Sono più o meno a metà. È un misto fra un'orchestra cinese e una contemporanea. Un progetto enorme, mi sono preso una piccola pausa per questi concerti e per venire qui, ma appena torno devo lavorarci sul serio fino a Natale.” Piaciuta comunque la serata alla Roundhouse? “Molto, mi sono divertito tantissimo. Ad essere sinceri, più o meno a metà concerto mi sono sentito come ero solito sentirmi all'apice dei Blur. La stessa atmosfera, la stessa connessione con il pubblico. Non mi era mancata quella connessione, e in un certo senso avevo deliberatamente cercato di non ricrearla. Ma il fatto che sia successo è magnifico.” In questo senso, Three Changes ricominciata da capo è stato senz'altro uno dei momenti più belli del concerto! “Sono felice che tu lo dica. Ho pensato ‘Siamo una band così buona, e per qualche motivo stiamo perdendo la concentrazione'. Ho voluto che tutti si fermassero, band e pubblico, perché sapevo che potevamo fare meglio. E così è stato.” Quasi come una prova aperta al pubblico… “Esatto, e non ho nessun problema con la cosa! So che qualcuno mi criticherà per questa attitudine, ma penso che il pubblico abbia risposto molto bene. A nessuno serve una performance tutta patinata e coreografata!”

È sicuramente presto per parlarne, ma The Good, the Bad and the Queen avrà un seguito? “Vediamo come va, il disco non è nemmeno ancora uscito. Ma ho il sospetto che alla gente il piacerà e che ci si potrà relazionare. Esprime qualcosa che chissà come, al momento, non è molto espresso altrimenti. Specialmente in Gran Bretagna. Vedremo. Ho anche un altro album dei Gorillaz da fare prima o poi, e forse anche un altro dei Blur. Chissà…”. Lui ridacchia, noi ovviamente approfondiamo. “Quello dei Gorillaz sarà la colonna sonora di un film. Difficile dire quando uscirà. Nel 2009 magari?” Sì, e Blur allora nel 2013? “Non so… ma davvero mi piacerebbe, e vorrei che Graham tornasse. Per me, sarebbe il momento ideale per cominciare a fare un nuovo disco dei Blur. In quattro. È diverso adesso, non sento i Blur tanto come una band vera e propria, ma più come persone che erano in una band insieme.”

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