PRIMADONNA
Rufus Wainwright, signore e signori

Un giovanotto, impeccabile in camicia e lederhosen tirolesi con iniziali ricamate, che accompagnato solo da un pianoforte canta due canzoni di Judy Garland come fosse l'unica cosa che abbia mai desiderato fare in vita sua, davanti a una platea rapita e mediamente intorno ai quaranta. Non esattamente l'individuo che ci si aspetta di trovare sulla copertina di Rumore, convengono il fan dei Mastodon, quello dei Morlocks e quello degli Arctic Monkeys mentre disdicono l'abbonamento. Ma non è proprio questo il bello? Non dare nulla per scontato, includere invece di escludere, amare invece di odiare. Non definirsi prima ed ascoltare di conseguenza, ma ascoltare innanzitutto. E poi, se rimangono tempo e voglia, casomai definirsi.
Lui, Rufus Wainwright, è tornato intanto al suo repertorio autografo e si prepara per i fuochi d'artificio finali di un lungo, entusiasmante spettacolo. Siamo a Monforte d'Alba, zona di Barolo, e il figlio di Loudon Wainwright e Kate McGarrigle è la stella del cartellone 2007 di MonfortinJazz, festival ospitato da un piccolo anfiteatro naturale chiuso da una cappella sconsacrata. Con un proscenio che pare fatto apposta per il concerto del Nostro, e invece è parte della maestosa villa sullo sfondo, con tanto di piante rampicanti, nicchie e fregi. Manca forse la magniloquenza dei palcoscenici molto Broadway sui quali davvero ci si immagina Rufus, ma l'effetto è comunque notevole, e camp il giusto.

Qualche ora prima, nelle belle stanze del centro storico adattate a camerini, lo avevamo visto sedersi a un piano elettrico non appena terminato il soundcheck. Un'immagine insolita dell'artista che suona per lavoro, ma anche per rilassarsi. O era forse lavoro anche quello? “Cerco di avere sempre un piano a portata di mano, specialmente adesso che ho diversi progetti in ballo. Al momento non è esattamente per rilassarmi. Beh, certo, sono rilassato per natura, ma sto comunque scrivendo molto. Ho un altro album da fare, un'opera da scrivere, un musical… tante cose, devo tenermi impegnato tutto il tempo, e scrivo principalmente al piano. La chitarra è uno strumento molto molto utile per divertirsi con gli amici, è più adatta a qualcosa come scrivere una canzone in due minuti. Sentire una cosa e farla esistere nel giro di due secondi. Il piano invece è più meditativo, ha più a che vedere con il fuggire e con il tempo, con il perdere il senso del tempo.”
E le parole invece? “Le parole sono molto importanti, le considero più difficili da scrivere e più preziose. La musica non dovrebbe essere troppo ragionata, le parole invece hanno bisogno di esserlo. Puoi prendere due poesie e dire comunque quale sia la migliore, dopo averle lette. Ma se scrivo due canzoni, due belle melodie, non penso ci sia una maniera possibile di paragonarle. È qualcosa di troppo misterioso.” È in gioco quindi un maggiore senso di responsabilità verso le parole delle canzoni? Tocca stare un po' più attenti alle cose che si dicono? “Sì, c'è una certa responsabilità in più. Le parole sono più legate alle cose terrene, all'umanità. Sono una costruzione degli esseri umani, mentre la musica non l'abbiamo creata noi, la musica c'è sempre stata.”

Parlando di parole, parliamo del nuovo album Release the Stars e di alcuni suoi momenti topici dal punto di vista lirico. Saremo solo gli ultimi di una lunga lista di intervistatori, ma è difficile non partire da Going to a Town e dal suo ormai celebre “I'm so tired of America”. Che immagine ha Rufus del suo Paese, che rapporto ha con esso? “Vivo ancora in America, vivo a New York e amo la città. Amo gli Stati Uniti. Penso siano un grande Paese, e sento il dovere come americano di esprimere la mia paura riguardo quello che sta succedendo, e il dovere di essere parte della soluzione. Di fare in modo che il mondo sappia cosa sta succedendo, e di aggiustare la nazione, perché è estremamente rotta . Ed assolutamente fuori controllo. Più sono critico, più sono cattivo, più significa che amo il Paese. Penso che l'America abbia decisamente bisogno di un po' di amore duro!”
Tra le risate, chiediamo quindi cosa piaccia e cosa non piaccia della vita negli Stati Uniti. “Amo la gente, naturalmente. E penso che in America ci sia uno strano senso di libertà che non esiste altrove. Non so se sia effettivamente   vero, ma lo si percepisce. C'è una sorta di speranza , di entusiasmo, che davvero non puoi trovare in un altro Paese. Forse dipende dalla ricchezza, non lo so, ma ci sono, ed è molto emozionante. Poi amo la storia dell'America, è incredibile. Quello che la costituzione promuove, quello che George Washington e Benjamin Franklin crearono, è davvero importante e sacro. La rivoluzione, l'idea di libertà e democrazia. Sono idee molto preziose, e devono essere salvate. Cosa non mi piace e mi rende stanco dell'America, come canto nella canzone? Non sarò io a dirti che non amo il denaro. Anche io cerco di farne molto e faccio parte di una società commerciale. Ma odio profondamente il lato commerciale dell'America. L'adorazione del dollaro, e come la finanza rovini così tanti aspetti della nostra vita.” Certo abitare a New York non deve però essere come abitare nel resto dell'America… “No, certo. Quando sei a New York sei in una fortezza, sicuramente. Non c'è modo di paragonarlo al vivere in Idaho, chessò. Ma, detto questo, sono stato in tutto il Paese, ho fan dappertutto e conosco tanta gente che vive da altre parti, ed ho ancora speranza che il sogno americano sopravviva.   E lo fa in Ohio, a dire la verità, non a New York!” E ride, per nulla spocchioso e antipatico come alcuni lo descrivevano. Anzi.

Altro testo significativo: Do I Disappoint You. Può sicuramente significare molte cose diverse, e non sappiamo quale di esse avesse in mente Rufus scrivendola. Ma sentendolo chiedere con voce dolente “Do I disappoint you in just being human?” proprio all'inizio dell'album, è assai possibile scorgere una presa di posizione contro l'omofobia, da parte di un artista dichiaratamente gay in pensieri, parole, opere e tutto il resto. “Beh, non ho mai davvero pensato a quella canzone in termini di omofobia. È una canzone molto particolare, il suo significato cambia continuamente. In origine l'ho scritta per uno spettacolo teatrale, pensando a una situazione del tutto diversa: parlava di questo personaggio bellissimo che non è mai preso sul serio perché è così bello, quasi come la Lulu de Il vaso di Pandora di Pabst, dove tutto intorno è distruzione perché lei è così bella. Ma ora, più penso a quella canzone e più mi accortgo di come parli in realtà molto di me stesso. E non necessariamente della bellezza, ma del dover essere sempre così sovrumano nella mia vita, e di come la gente se lo aspetti. Ma sarebbe molto interesante anche leggerla pensando all'omofobia, certamente.”
Omofobia non solo non ancora debellata, ma persino rinforzatasi in questi ultimi tempi: gli attacchi alle parate dell'orgoglio gay nell'est europeo, le ridicole titubanze italiane nei confronti di una legge sulle unioni di fatto venduta dai media esclusivamente come matrimonio dei froci, l'equazione dura a morire fra omosessuale e pedofilo (sentita evocare con queste orecchie anche da elettori dell'Unione di solida fede democratica, terrorizzati anch'essi dall'avanzata pederasta). Tempi scuri, insomma. Mai capitato al Nostro di sperimentarli sulla propria pelle, in concerto o nella vita di tutti i giorni? “Qualche volta. Nulla di terrificante, no, ma ho avuto comunque gente che mi gridava certe cose ai concerti mentre mi stavo esibendo, ed è stato molto difficile. Sei così sensibile mentre stai cantando, così enormemente vulnerabile. Se qualcuno grida qualcosa del genere in quel momento è come una pugnalata. Quando capita per la strada sei più corazzato, cerchi di fregartene. Ma quando sei su un palco sei vulnerabile, e diventa molto più offensivo, doloroso. Come ho reagito in questi casi? Ferito, ho cercato di continuare. Ma non è successo spesso, per fortuna. I miei fan sono molto protettivi con me, c'è sempre la sensazione che se qualcuno dovesse darmi fastidio o dire qualcosa di brutto, dieci ragazze belle ciccione sarebbero pronte a riempirlo di botte!” Immagine suggestiva, non c'è che dire. Ma a un livello più alto, il problema ha una soluzione? “Non lo so. Forse serve solo più istruzione, più educazione in generale. Che è in realtà la soluzione per così tante cose diverse! La maggior parte delle persone omofobiche sono soltanto estremamente ignoranti. L'altra cosa importante sono le leggi: avere uguali diritti per gli omosessuali. Non sono nemmeno un tipo troppo da matrimonio, ma penso che anche soltanto in termini di eredità, visite ospedaliere ed altri aspetti legali come questi, i diritti dovrebbero essere gli stessi, uguali.”

Cambiamo argomento: è così automatico che il crescere in una famiglia molto musicale (“Mia madre è una specie di regina celtica, ma molto romantica. Quasi un personaggio romantico di un romanzo inglese. Mio padre è un cowboy americano upperclass. E mia sorella Martha è una dea greca. Sì, mia sorella è decisamente una dea, una dea arrabbiata!”) faccia di una persona un musicista? “È sempre stato abbastanza ovvio, anche quando avevo solo tre anni. Orbitavo costantemente intorno al piano, il piano era il mio palazzo, la mia reggia. Mi ci sedevo sopra, sotto, lo suonavo… forse perchè mia madre suonava il piano, io mettevo lo strumento in relazione con lei. Sì, era ovvio per tutti che sarei diventato un musicista, fin da quando ero molto piccolo.” Eroi di gioventù? “Mi piacevano Al Jolson, i Beatles e… gli Eurythmics. Amavo gli Eurythmics!”.
Ma la passione numero uno, è cosa nota, è da sempre quella per Judy Garland: nel giugno dello scorso anno, alla Carnegie Hall di New York, Wainwright ha riproposto interamente l'album dal vivo registrato proprio lì nel 1961 dalla diva, Judy at Carnegie Hall. Due concerti andati esauriti con largo anticipo e quindi replicati a Parigi e Londra, in uscita proprio in questi giorni su cd e dvd. Una pensata quantomeno bizzarra (per la cronaca: pare che la prossima sia ricreare il concerto della stessa Garland allo Hollywood Bowl di Los Angeles, esattamente quarantasei anni dopo, il 23 settembre 2007), ma accolta con grande calore dal pubblico. Più o meno come qualsiasi altra cosa toccata da Rufus, in ascesa vertiginosa verso i piani alti dello stardom mondiale. “Pensavo fosse un'idea divertante per un side project, qualcosa da fare fra un album e l'altro. In più, sentivo che la mia voce non era rispettata abbastanza. Molti dicevano ‘Oh, mi piacciono la sua scrittura e le sue orchestrazioni, ma la sua voce è strana…', ed è stato come se aver risposto ‘Ok, ascoltate, sono un grande cantante! State zitti ed ascoltate!”
Il tributo a Judy Garland, la ricca orchestrazione dei suoi dischi: in tempi in cui quasi tutti tendono a suonare sempre più essenziali, lui va in senso contrario. Verso un suono pop melodrammatico, classico, pieno. Finire prima o poi dalle parti dell'opera sembra un percorso naturale… “Sto lavorando a un'opera, sì. Sto scrivendo un'opera, la musica e la storia, tutto. Ci vorrà un po' prima che sia prodotta, ma ci sto lavorando. Si intitola Prima Donna (gli è stata commissionata da Peter Gelb, direttore del Metropolitan – ndr) e racconta un giorno nella vita di una cantante d'opera. È fatta apposta per un soprano.” Chi sarà la prescelta? “Ci sono molte cantanti liriche che mi piacciono, ancora non lo so. Mi piace Waltraud Meier, una mezzosoprano tedesca. Ma conosco anche molto bene Renée Fleming… o chissà, forse Cecilia Bartoli, chissà…”.

Più che un cantante lirico, Rufus sul palco sembra però un entertainer vecchio stile. Versatile, piacione, competente, navigato, capace di infilare gag esilaranti una dopo l'altra, e di tenere la situazione sempre saldamente in pugno. Una cosa comunica sopra le altre: che essere lì, in quel momento, adorato dal suo pubblico, libero di cantare le canzoni che gli va di cantare è la ragione per cui è nato. Una band di otto elementi che dà l'impressione di divertirsi davvero un mondo, tutta vestita con fantasie di abiti a strisce, lo introduce sul palco sulle note di Release the Stars , brano che chiude il suo ultimo album e gli dà il titolo. Lui entra, in giacca e pantaloni anch'essi a strisce, pacchianissimi, ed è puro musical.
Il suono è perfetto, gli artisti sono a pochi metri dal pubblico, l'atmosfera è intima e partecipata. Seguono soprattutto altri episodi dello stesso disco (il calore del singolo Going to a Town, una stupenda Tulsa da solo al piano, la struggente Tiergarten, una Between my Legs un po' Pulp). Quindi un intervallo. Quindi un secondo atto aperto con i calzoni corti tirolesi di cui sopra e un divertito “I'm Pinocchio”, lungo il quale si pesca anche tra i successi dei dischi precedenti (Harvester of Hearts, Foggy Day, Beautiful Child e If Love Were All tra gli altri), aggiungendo un tradizionale irlandese come Macushlah che blocca il respiro dei presenti. Quindi i colpi di teatro: lui che esce per i bis in accappatoio e commuove seduto al piano con Hallelujah di Leonard Cohen, per poi subito dopo infilarsi scarpe col tacco ed orecchini, darsi un giro di rossetto, levarsi l'accappatoio e - vestito da donna in giacca e collant - chiudere con uno strepitoso numero in playback, Get Happy (ancora Judy Garland), lui nella parte della stella e gli otto della band in quella dei boys. Stesi ai suoi piedi, come il pubblico locale e i seguaci giunti in questo splendido angolo di Langa dall'Italia e dall'estero, tutti rapiti dalla primadonna.

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