BLACK RIOT

La musica è l'arma

“Andai al suo funerale. Più o meno centocinquantamila persone si riunirono in Tafawa Balewa Square per portare l'ultimo saluto. Gruppi suonavano, la gente faceva code infinite per passare di fianco alla sua bara di vetro. Poi caricammo la bara sul carro funebre (con ancora circa trentamila persone in coda), perché venti miglia ci separavano dallo Shrine, dove i figli di Fela avrebbero celebrato una cerimonia privata per famiglia e amici. In mezzo a una miriade di veicoli attraversammo Lagos, dietro una band che nel retro di un pick-up suonava canzoni di Fela. La strada era affollata da decine di migliaia di persone. Quando arrivammo in cima a una collina guardai oltre la valle verso l'orizzonte: la strada era piena di gente da una parte all'altra, fino a dove gli occhi riuscivano a vedere. Un milione di persone o più, e anche di più ne arrivarono ad ogni quartiere che attraversavamo. Sette ore per fare 20 miglia, e la band non mancò una nota. Quando arrivammo in prossimità di Ikeja, cominciammo a preoccuparci. Cosa sarebbe successo quando avremmo raggiunto Pepple Street, una piccola stradina laterale dove si trovava lo Shrine? E come avremmo fatto a raggiungere lo Shrine, con un milione di persone di fronte a noi? La notte scese mentre ci avvicinavamo. Girammo in Pepple Street e non trovammo praticamente nessuno. Un milione di persone o più aveva deciso che non era il caso di andare anche lì.” Le usammo già una trentina di numeri fa recensendo lo splendido dvd Music is the Weapon, ma davvero non si trovano parole migliori di quelle del manager e amico Rikki Stein per raccontare il 12 agosto del ‘97. Fela Kuti era morto di sabato pomeriggio, dieci giorni prima, fiaccato chi dice dall'Aids e chi dalle ripetute aggressioni fisiche subite dalle autorità del suo Paese, la Nigeria. Al suo funerale si ritrovò un intero popolo. I moltissimi che lo adoravano e lo rispettavano profondamente, e gli altri. Con l'atmosfera caotica e discreta insieme descritta sopra, arricchita dai risvolti quasi comici che ebbe ad aggiungere il primogenito Femi, anch'egli musicista: “Per due giorni la gente di Lagos non andò a lavorare! E per la prima volta in città non ci furono denunce per rapina o altro. Perchè tutti i rapinatori e i bad boys lo amavano, capito? Erano tutti impegnati al funerale.”

L'icona, il ribelle, il Presidente Nero, l'eroe del panafricanismo in musica nasce Olufela Olusegun Oludotun Ransome-Kuti il 15 ottobre del ‘38 ad Abeokuta, una cinquantina di kilometri a nord di Lagos. Il padre è ministro di culto protestante, preside di scuola e fondatore dell'Unione degli Insegnanti Nigeriani. La madre è attivista politica femminista e anticolonialista, e fa parte del team che tratta l'indipendenza dall'Inghilterra nel ‘60. Il nonno paterno, pastore anche lui, è uno dei primi africani ad aver registrato la propria musica su disco, una serie di inni Yoruba pubblicati da una sussidiaria EMI negli anni '20. Proprio lui incoraggia il giovane Fela in quella direzione, e forse non a caso il ragazzo, spedito a Londra nel ‘58 per studiare medicina come i fratelli, si iscrive invece alla Trinity School of Music.
Per quattro anni studia pianoforte, composizione e teoria, e insieme ad altri connazionali forma la sua prima band, Koola Lobitos, che suona un misto di jazz e highlife. Nel 1961 sposa la nigeriana Remilekun Taylor, che gli darà Femi. Nel 1963 torna a casa e riforma la band, cominciando a gettare i semi di quello che qualche anno dopo lui stesso battezzerà Afrobeat. C'è però un viaggio del gruppo negli Usa, nel ‘69, alla radice dei mutamenti che preparano il nostro ai Settanta: la musica assorbe soul e funk in quantità, e l'incontro con la Pantera Nera Sandra Isidore porta a una presa di coscienza razziale ed a una netta politicizzazione dei testi. La band viene ribattezzata Fela Ransome-Kuti & Nigeria ‘70 e subito dopo, tornati a Lagos, Fela Ransome-Kuti & The Africa '70 (a volte con la K, a volte senza l'apostrofo).
È come se la metropoli non aspettasse altro, ed è qui ed ora che Fela diventa Fela. La musica va di pari passo con i fatti, l'una e gli altri si nutrono a vicenda e si rincorrono, in un crescendo di arte e violenza senza precedenti. Lui comincia a suonare sax ed organo elettrico, e a cantare in Pidgin English , inglese ibridato con vari linguaggi locali, lingua franca di un continente enorme e multietnico. I temi si fanno più caldi e rilevanti: vita quotidiana nel ghetto, difesa dell'identità africana, critica sociale e politica, ironia velenosa. Il suono si fa più personale, dilatato, sicuro. Afroamericano, diremmo. Gli Africa '70 diventano una perfetta macchina da guerra, spinta dagli accenti inimitabili della batteria di Tony Allen, e da lui condotta a spron battuto verso la definizione di un suono inedito che arriverà alle estreme conseguenze: ogni canzone è un'avventura interminabile, che lo studio di registrazione riesce a circoscrivere fra i dieci e i trenta minuti. Una trance che parte piano, cresce, esplode in frasi di ottoni ripetute, torna giù e lascia spazio agli assoli, fino a quando Fela non decide che è tempo di dire la sua al microfono, con le donne a fare il coro. La tensione non cala mai, il groove nemmeno. A passi da gigante il medico mancato diventa un performer tra i più carismatici di sempre, ma giù dal palco il magnetismo e l'autorità che emana sono persino superiori. Non male, per uno che passa le giornate vestito solo di un costume da bagno striminzito e di un cannone enorme. Verso la metà del decennio cambia anche cognome: basta con Ransome, nome da schiavo, e avanti con Anikulapo, “colui che porta la morte in tasca”.

Intorno al leader si forma piano piano una vera e propria comune, con base prima in un club da lui aperto, lo Shrine, e in seguito soprattutto nella autoproclamata Repubblica di Kalakuta. Di che si tratta? Semplice: lui e la sua gente ne hanno abbastanza del regime nigeriano, e dichiarano la secessione. Alzano un recinto intorno alla casa dove vivono e lo ricoprono di filo spinato. Quasi ogni notte fanno a piedi i quattro isolati che li separano dallo Shrine, bloccando il traffico, camminando fra ali di folla osannante e pugni chiusi. Arrivati a destinazione, suonano per ore davanti a un pubblico rapito, costruendo inni che una volta registrati e pubblicati su disco – come vuole una delle tradizioni più famose di Fela – non verranno mai più eseguiti dal vivo. Così vuole il capo, così è.
La Repubblica si allarga a tutto il quartiere e la febbre sale, arrivano giovani da ogni parte, vita e creazione artistica sono sempre più fuse, in una miscela polemica malsopportata dai bersagli di una musica di protesta nel vero senso della parola: succede una cosa che lo fa incazzare? Fela Anikulapo-Kuti ci fa su un quarto d'ora di canzone, con nomi, cognomi, fatti e misfatti. Riferimenti particolareggiati oltre ogni pudore, ma sempre adatti a molteplici livelli di lettura, sempre portatori di un significato più ampio e duraturo. Come il secco refrain antimilitarista di O.D.O.O. (Overtake Don Overtake Overtake) – “Soldier come, soldier go” – cantato nelle manifestazioni del 1998, contro l'elezione dell'ex dittatore Obasanjo come presidente “democratico”.
Comincia la guerriglia fra il ribelle e il regime insomma, senza esclusione di colpi. Il Presidente della Repubblica di Kalakuta – a suo modo un dittatore lui stesso, nerbate per gli uomini e isolamento in una specie di baracca per le donne – rompe le palle ai governanti, non sta zitto un attimo, sobilla gli straccioni, odia i militari, denuncia corruzione e malaffare, chiede conto di ogni singolo misfatto. E lo fa con musica trascinante e sensuale, ipnotica, capace di trascinare le folle nonostante censura e repressione. Dischi (tantissimi, anche otto all'anno, due pezzi per lato al massimo) che potrebbero sostituire la mera cronaca: nel ‘74 la polizia bussa con un mandato di perquisizione e un cannone già fatto che viene “trovato” addosso a Fela. Lui lo inghiotte, ma viene arrestato lo stesso e sottoposto ad esame delle feci. Fa esaminare quelle di un compagno di cella, viene liberato e racconta tutto in Expensive Shit. Lo portano in tribunale per sequestro di minori, ma le prove scarseggiano e una settimana prima della sentenza arriva il secondo raid su Kalakuta. Fela va in aula con un braccio rotto e ferite alla testa, vince la causa e si fa i sei kilometri dal tribunale a casa scortato da cinquantamila persone in delirio. E racconta tutto in Kalakuta Show.

Nel ‘76 lo scontro si fa assoluto. Il punk londinese in confronto è roba da asilo nido. La Anarchy in the UK della situazione si chiama Zombie, vetriolo rovesciato sui soldati di qualunque nazione. Canta “Lo zombie non pensa/a meno che non gli venga detto di pensare” al festival Mondiale di Arte e Cultura Nera di Lagos, e complice un groove irresistibile l'epidemia si sparge in tutta l'Africa. Per le strade di Lagos i ragazzini cantano Zombie mentre prendono per il culo i militari, e non va bene. Quando le guardie del corpo del Presidente Nero pestano due soldati e bruciano una moto dell'esercito, è troppo: il 18 febbraio del ‘77 mille militari devastano Kalakuta e brutalizzano i suoi abitanti. Tutto a fuoco: case, clinica del fratello Beko Ransome-Kuti, studio di registrazione, strumenti, nastri. Le donne stuprate. Fela trascinato per i genitali, picchiato e salvato dalla morte solo grazie all'intervento di un ufficiale. Funmilayo, settantottenne madre di Fela, viene gettata da una finestra e muore per le ferite pochi mesi dopo. I giornali non ne parlano, la musica ancora una volta sopperisce: Unknown Soldier è il resoconto della battaglia, Coffin for Head of State della vendetta. Il primo ottobre del '79 infatti, anniversario dell'indipendenza, un autobus con a bordo Fela e altri 57 sfonda le barriere di sicurezza e, tra raffiche di mitra, depone una bara simbolica e pesantissima sulla porta di casa del suddetto Obasanjo.
In mezzo c'è spazio per un breve esilio in Ghana (concluso con un bando dopo i disordini causati dalla solita Zombie allo stadio di Accra), per un matrimonio collettivo con 27 tra coriste, ballerine e ragazze della comune (mediamente splendide, pare le soddisfasse tutte con un sistema di turni…) e per l'abbandono di buona parte della band dopo le immancabili questioni economiche. Ma l'uomo è come posseduto, sempre più radicale: forma una nuova band e la chiama Egypt 80 (senza farlo apposta, sul palco arrivano anche ad essere proprio in ottanta!), continua a registrare dischi e a suonare in giro per il mondo, apre un nuovo Shrine. Fonda una nuova Kalakuta e un partito politico (Movement of the People), ma la sua candidatura alle elezioni presidenziali del '79 viene rifiutata dal regime. A quelle di quattro anni dopo vuole riprovarci, ma la polizia tanto per cambiare gli distrugge la casa, picchiando ed arrestando lui e i suoi seguaci. È poi condannato a cinque anni per questioni di traffico di valuta, ma dopo venti mesi di carcere viene scoperta la montatura e torna libero. Ma una lotta così cruenta fiacca corpo e spirito, e nei Novanta la sua voce si attenua. Gira voce che sia malato e rifiuti le cure, e il 2 agosto del '97 un tumore se lo porta via.

Di una vicenda così tumultuosa sarebbe però un errore tralasciare l'aspetto artistico, perchè del suo Paese Fela Kuti è stato sì il dissidente politico più famoso e perseguitato, ma anche il musicista ed autore più amato ed influente. Ed anzi la sua influenza in musica abbatte i confini nigeriani, imponendolo come più popolare ed accreditato rappresentante dell'intero suo continente, e come pilastro e nell'evoluzione della musica popolare in senso lato. Icona al pari di Elvis, Beatles, Dylan, Marley. Contino le testimonianze dalla Lagos dei primi Settanta di Paul McCartney (“La migliore band che abbia mai visto, non riuscivo a smettere di piangere dalla gioia”) e di Bootsy Collins, bassista di James Brown (“Erano i tipi più funky che avessimo mai sentito: dico, eravamo il gruppo di James Brown, ma ci spazzarono via! Fu un viaggio che non cambierei con nulla al mondo”). A cosa credete che assomiglino i pezzi da dieci minuti che il Godfather of Soul cominciò a fare nello stesso periodo? E ancora, ci sono un Gilberto Gil cambiato per sempre dall'incontro (“Mi sentivo come un albero trapiantato e capace di fiorire”) e un Brian Eno che descrive il non essere riuscito a produrre un disco di Fela come il suo più grosso rimpianto, e sta sveglio la notte a pensare a come un disco del genere avrebbe suonato. Nonchè un Fela stesso che parla di George Frideric Handel come del musicista che più rispetta, e descrive la propria come “Musica classica africana”. Ma se ascoltate il riff di organo che entra attorno ai 12'30” di Roforofo Fight ci sentite il kraut rock e la house minimale, per esempio.
Ingrifato, fumato, refrattario, padrone di sè stesso, indomito, autoindulgente, capopopolo, cagacazzo. Dieci anni fa moriva Fela Anikulapo-Kuti: “Nessun africano ha mai visto qualcosa di simile a me.”


(indietro)