DUB, LA STORIA INFINITA
Da Kingston ai cinque continenti. Intervista a Bruno Natal, regista di Dub Echoes.

Girano varie storie su King Tubby, tutte in qualche modo legate al suo essere preciso e perfezionista fino alla maniacalità. Il cromo delle valvole e delle manopole dello studio sempre lucido, i vestiti sempre puliti e stirati, il fazzoletto che salta fuori dalla tasca non appena un granello di polvere si posa sulle scarpe. La migliore? Lui che va in banca a farsi cambiare banconote usate, chiedendone altre nuove di zecca e con i numeri di serie in sequenza. Parabola forse apocrifa, ma estremamente simbolica: non succedeva forse lo stesso ai produttori che entravano nello studio al numero 11 di Dromilly Avenue con i nastri sottobraccio, per uscirne con qualcosa di uguale eppure completamente nuovo?

“Gli strumenti si muovono con delicatezza avanti, indietro, dentro, fuori e intorno al mix, ribilanciando completamente la canzone quattro o cinque volte nello spazio di un minuto. Nuove melodie prendono forma da particelle di ritmo che sono state estese e rimodellate, laddove sequenze melodiche sono state fatte a pezzetti così brutalmente da poter essere messe una sull’altra fino a diventare ritmo. Nel frattempo, l’eco e il phaser stanno raccogliendo linee di fiati e riff di tastiere apparentemente a caso, e le percussioni stanno sbandando da tutte le parti come fossero in un flipper. Benvenuti a Tribesman Rockers, uno dei molti vertici di un album dub del 1978 (African Dub Chapter Three - ndr) concepito, creato e superbamente realizzato dai Mighty Two, ovvero il proprietario di studio e produttore Joe Gibbs e il suo tecnico del suono Errol ‘ET’ Thompson. Proprio quando stai cominciando a capire cosa succede intorno a te, una melodia familiare filtra attraverso il vortice. Kingston Town di Lord Creator. È sconcertante, perché non è quasi possibile immaginare una canzone trasformata in qualcosa di più lontano – musicalmente o sociologicamente – dalle intenzioni del suo compositore, eppure ancora riconoscibile”.
Parola di Lloyd Bradley, dal suo favoloso Bass Culture – When Reggae Was King. La banconota da dieci dollari di King Tubby, vecchia o nuova che sia, è in fondo sempre una banconota e vale sempre dieci dollari. La traccia che esce dal trattamento dub è anche e soprattutto altro. Nulla meglio dell’evoluzione della musica reggae celebra l’arte giamaicana di riciclare, di fare con ciò che si ha e di fare di questi presunti limiti una forza: le decine o addirittura centinaia di cantati diversi sulla stessa base strumentale, o su decine di versioni risuonate della stessa base strumentale; il deejay che da selezionatore con microfono per gli annunci diventa voce solista egli stesso, spostando di fatto all’interno dei confini dell’isola il significato del termine stesso; il tecnico del suono che nel suo studio smonta e ricostruisce materiale fatto e finito da altri, diventando - caso unico al mondo - titolare persino di interi album a suo nome.

In questa evoluzione, la vicenda del dub è uno degli snodi principali, per portata e conseguenze. È proprio King Tubby, con un mixer a due piste e una montagna di effetti e filtri autocostruiti, smanettando in tempo reale e costantemente ridisegnando i circuiti delle sue apparecchiature, a inventare letteralmente quella pratica del remix che oggi diamo per scontata, e della quale ci piace provare l’ebbrezza con il nostro laptop ultrasottile. A ricordarcelo, e a raccontare un’influenza che come un’eco infinita pare non cessare mai (ultima ripercussione: il dubstep), arriva oggi Dub Echoes, film firmato dal giornalista musicale e documentarista brasiliano Bruno Natal, e prodotto dalla londinese Soul Jazz Records. Un viaggio nei suoni e nella mentalità del dub, realizzato attraverso interviste con numerosi suoi protagonisti di ieri e di oggi, giamaicani e non: da King Jammy a Kode9, da Lee Perry a Roots Manuva, da Adrian Sherwood ai 2ManyDJs, passando per U-Roy, Mad Professor, Sly Dunbar, Bunny Lee, Dennis Bovell, Switch, Basement Jaxx, Gussie Clarke, Don Letts, Dr. Das (Asian Dub Foundation), Mutabaruka, LTJ Bukem, Peter Kruder, Audio Bullys, Congo Natty, Dreadzone, DJ Spooky, Thievery Corporation e Howie B. Fino ad autentiche università viventi del reggae come i giornalisti/discografici Steve Barrow (The Rough Guide to Reggae, Blood & Fire Records) e David Katz (Solid Foundation - An Oral History of Reggae, People Funny Boy - the Genius of Lee Scratch Perry, Auralux Records).

Da sempre al lavoro sulla musica del proprio Paese - i suoi cinque film precedenti riguardavano rispettivamente l’ultima sessione di registrazione della leggenda Chico Buarque, il gruppo pop-rock Jota Quest, il re della fusion Eumir Deodato, le registrazioni in Giamaica di Vanessa Da Mata e la collaborazione fra Maria Bethânia e Omara Portuondo - Natal ci rivela che Dub Echoes è in realtà il suo primo progetto, nato nel 2004 e terminato solo ora per motivi economici: “È il primo film al quale ho cominciato a lavorare, ma essendo un progetto indipendente, senza budget, ci è voluto così tanto tempo per completarlo che sono usciti tutti gli altri film prima che fosse finito. L’idea è venuta in maniera molto naturale a me e al mio co-autore Chicodub. Stavamo ascoltando tanta drum’n’bass, e parlavamo sempre di quanto avesse attinto dal dub. Non avendo trovato nulla di ben scritto sull’argomento, per non dire di filmato, abbiamo deciso di farci un film un giorno o l’altro. Tempo dopo, nel 2004, abbiamo avuto l’opportunità di andare in Giamaica per filmare il making of di un catalogo di moda, e abbiamo deciso di trattenerci e cominciare a girare. Ma è stato lungo e difficile, tutti coloro che hanno lavorato al film lo hanno fatto nei ritagli di tempo, per amore del dub e perché credevano e credono nel progetto. E fare un film usando i ritagli di tempo della gente non è mai una cosa veloce. La Soul Jazz la contattammo molto tempo fa, durante la produzione, chiedendo aiuto per arrivare a un po’ di gente da intervistare. Ci hanno supportato da subito, e ci hanno chiesto di farci sentire quando avessimo completato il lavoro. Non penso nemmeno che si ricordassero di noi, dopo tutti quegli anni!”
Mai avuto dubbi sui destinatari dell’opera? Girando e facendo domande, avevano in mente gli appassionati più ferrati in materia o coloro del tutto ignari? “Non abbiamo mai lavorato pensando a che tipo di pubblico volessimo raggiungere. Il film è stato girato principalmente per soddisfare la nostra stessa curiosità sull’argomento, e abbiamo sempre creduto che avrebbe trovato la sua audience da solo. Amo il dub, ha in sé molto spazio, non si impone troppo su di te, è ottimo per lasciare liberi i tuoi pensieri e volare via. Per molto tempo è stato il mio tipo di musica preferito. Così tanto che mi ha fatto venir voglia di raccontarne storia, per fare sapere a tutti la sua importanza”.

Una cosa però si nota immediatamente: l’assenza quasi totale di filmati originali giamaicani d’epoca. Fatto curioso, dato l’argomento. Una decisione cosciente? La risposta di Natal è decisamente in tema: “Non potevamo permettercelo. All’inizio lo abbiamo vissuto come un problema, ma poi abbiamo reagito adottando una mentalità dub verso il problema stesso, e abbiamo deciso di ottenere il meglio con quello che avevamo. Alla fine, penso che sia andata bene così. Sarebbe stato troppo facile affidarsi soltanto al classico formato dei mezzibusti che parlano alternati a immagini d’archivio”.
Altra perplessità, sollevata dal Guardian: si parla molto, e di cose molto interessanti, ma non si vedono molti dei protagonisti all’opera, mentre mixano e producono versioni dub in diretta davanti alla videocamera. La parola alla difesa: “Rispetto l’opinione di tutti. Molti aspetti del film avrebbero potuto essere migliori, ne sono sicuro. Ma è impossibile accontentare la visione di ciascuno in un film solo. Nello stesso tempo, molta gente ci ha detto che è stata felice di poter vedere in faccia musicisti e produttori che aveva sempre solo sentito nominare. Sono molti coloro che avrebbero potuto essere nel film, ma sarebbe stato impossibile averli tutti in soli 75 minuti. La maggior parte di quelli che volevamo li abbiamo avuti, solo un paio non hanno voluto essere parte del progetto, per ragioni differenti”. Un paio più Osbourne “King Tubby” Ruddock, ucciso a pistolettate nel febbraio del 1989 durante un tentativo di rapina. Chissà dove sarebbe arrivato, a questo punto, con le sue sperimentazioni. Chissà cosa starebbe facendo, e se in vita avrebbe raccolto gli onori che merita dalla storia della musica ufficiale.
Incontrare alcuni degli altri nei loro luoghi deve essere stata comunque un’emozione non da poco. “È stato incredibile, un sogno diventato realtà. Non ci sono moltissimi aneddoti, tutto è successo molto velocemente nella maggior parte dei casi, ma guidare per le strade di Kingston nel retro del furgone di Bunny Lee, andando a vedere la vecchia casa di King Tubby, è stato sicuramente un momento clou. Anche incontrare U-Roy è stato bellissimo: è una delle persone più gentili che abbia mai conosciuto in vita mia. Mentre eravamo a Kingston non ci siamo nemmeno preoccupati di raccogliere le liberatorie e le firme necessarie per pubblicare il materiale in seguito, così ho douto contattare molti degli intervistati di nuovo, al telefono, per richiederle. U-Roy ha mandato la sua con una lettera, indirizzata a me. Ho ancora la busta e la conserverò sempre”.
E Lee Perry? Chi ha esperienza con le sue interviste stenterà a credere che quello che parla in Dub Echoes sia lo stesso Scratch. Sempre tendente all’astratto e all’immaginifico, ci mancherebbe, ma mai così attento e approfondito. Persino su un fatto determinante nella sua storia artistica e umana. “Ce lo hanno detto in molti. All’inizio eravamo delusi, perché non sembrava vivace e un po’ pazzo come ci si aspetterebbe da lui. Ma più tardi, riguardando il girato, ci siamo resi conto di quanto fosse straordinario avere un’intervista in cui parla così. È raro vedere Lee Perry così concentrato, e il modo in cui ha parlato degli studi Black Ark, raccontando così direttamente le ragioni che lo portarono a bruciarli… non lo avevo mai visto nè letto prima”.

Come detto, però, non di sola Giamaica si tratta. Il dub è ormai ovunque, anzi ovunque tranne che in Giamaica, come fa notare con sarcasmo quasi divertito Don Letts, simbolo della comunione punk/rasta britannica di fine anni ’70. A Kingston nessuno produce cose del genere da anni, il dub e il reggae di ispirazione roots da cui nacque e grazie al quale proliferò sono musica da genitori o nonni. La corrente è andata avanti, mantenendo sempre alto il tasso di inventiva fino alle moderne sonorità dancehall, mentre la passione per echi ed effetti si propagava nel resto del mondo. Inesorabile e sfaccettata. Se chiediamo a Natal chi, fra i più giovani intervistati, pensa abbia più chiaro il concetto di dub, la risposta è scontata: “Non penso ci sia un solo concetto migliore di altri, ma commercialmente e dal punto di vista dell’esposizione mediatica penso che il dubstep stia mettendo in pratica al meglio tutto quanto. Dove andrà il dub in futuro? Se tutto va bene, in qualche direzione inattesa!” E lui, cosa farà? “Sono di nuovo in Brasile adesso, e faccio la regia di un reality show. Il mio prossimo film sarà una commedia sulla violenza urbana a Rio. Per quello si che sarà difficile raccogliere dei fondi!”

***

MADASKI
Il dub come un’orchestra

Ragionando sul dub, risulta doveroso interpellare Madaski, da molto tempo la massima autorità italiana in materia. Come colonna portante - e anima più eterodossa e irrequieta - degli Africa Unite, ma anche come produttore conto terzi e solista, e oggi infine come responsabile (insieme ad altri due pezzi della band-madre, il percussionista Papa Nico e il bassista Paolo Baldini) del progetto The Dub Sync. Un sodalizio nato come live set, rafforzatosi sui palchi italiani ed europei e concretizzatosi lo scorso anno nel pregevole doppio cd Dub Ex Machina. Proprio da qui cominciamo con il dubmaster di Pinerolo, pungente come al solito. “Il nostro è un set molto aperto all'improvvisazione tra elettronica, dub e percussioni. Abbiamo collaborato con molti cantanti, e con Dubdadda degli Zion Train abbiamo anche pubblicato un vinile per Elastica, etichetta fiorentina molto attiva nel panorama dubstep. Abbiamo appena terminato un tour tedesco e in estate suoneremo ad alcuni festival europei, tra Germania e Olanda. Finalmente, pare si sia risvegliato un certo interesse per un’attitudine, quella dub, che da decenni influenza pesantemente tutta l’elettronica e i generi vicini, non certo solo il reggae. Cerchiamo di sfruttare il momento con il nostro entusiasmo e con l’esperienza accumulata in tutti questi anni, proponendo un prodotto vero e assolutamente non italiano”.
Come descrivere il dub e suo ruolo a chi non ne sa nulla? “Il dubmaster è come il direttore d'orchestra, sposta le masse strumentali, lavora sulla dinamica di una traccia e la stravolge, la plasma all'istante, per poi colorarla con effetti, risonanze.Tutto in tempo reale, dando la preferenza a suoni scarni ma possenti come il basso e le ritmiche. Il dub non si programma, si esegue! La peculiarità della version è quella di essere assolutamente live, improvvisata. Non possono esistere due version identiche, chi programma al computer è un’incapace, e ce ne sono molti, specialmente tra i nuovi”. Un approccio istintivo e meticoloso insieme, che rimanda direttamente a quello dei maestri giamaicani: “Uso il computer solo come piattaforma di registrazione, ma mixer ed effetti sono analogici. Il computer si limita a far scorrere le tracce, tutto il resto è rigorosamente fatto a mano. Ascolto il brano, che spesso già conosco perchè l’ho mixato anche in maniera tradizionale. Preparo effetti, riverberi, echi, phaser e parto, con il tipico ‘togli/metti’ che caratterizza questo sound. Ho imparato molto da Mad Professor lavorando con lui in Ariwa, il suo studio londinese, ma mi piace molto anche Adrian Sherwood, perchè ha un’attitudine più elettronica e scura”. E il dubstep di cui sopra? “È un po’ la moda del momento, come jungle e drum’n’bass una decina di anni fa, se vuoi essere un dj figo la suoni o la fai. Ci sono cose interessanti, il suono mi piace e ho fatto anche qualche esperimento in materia. Alla fine tutto si utilizza, ma sono sempre per cercare il meno classificazioni di genere possibile.”
A questo proposito, facciamo un passo indietro: come arriva al dub un giovane diplomato in pianoforte che ha suonato e suona in gruppi punk e new wave? “In maniera molto naturale, attraverso le prime version dei brani degli Africa Unite, e attraverso il mio lavoro di fonico e produttore. Parliamo di circa venticinque anni fa, la mia estrazione musicale era piuttosto lontana dal reggae, e ancora lo è. Il punk e la new wave erano le cose che più mi interessavano ai tempi, e forse la predilezione per il dub deriva proprio da li. Il dub è un’elaborazione più scura, sperimentale ed elettronica del suono reggae. Bela Lugosi’s Dead dei Bauhaus è assolutamente dub: ritmica, effetti, molto space echo. O She’s in Parties, sempre dei Bauhaus. C’è sempre uno spazio di contaminazione sul quale lavorare musicalmente”. Contaminazione quasi naturale, in una cittadina di provincia – per pura coincidenza la stessa di chi scrive – dove per forza di cose ribelli e alternativi di varia natura facevano gruppo, scoprendo affinità attitudinali e musicali che non ci si poteva permettere di trascurare. E dove negli anni ‘80, grazie anche all’esempio dei suddetti Africa Unite, punk e reggae erano la stessa cosa manco si fosse a Londra, ed era normale alternare Clash e Marley, Dead Kennedys e Steel Pulse, CCCP e Linton Kwesi Johnson. “Il fatto di provenire da una piccola città ha sicuramente aiutato a unire generi lontani: la minoranza di persone che ascoltava o faceva musica, allora, era unita contro la merda musicale italiana, e ascoltava senza troppe distinzioni di genere ciò che proveniva da fuori, perchè appariva interessante e fresco. Nuovo. Forse tutto questo si è un po’ perso. Paradossalmente, ora che tutto è a portata di mano si rivalutano cose italiane, e parlo di molti miei ‘colleghi’ che non sanno più dove andare a parare, e probabilmente si dimenticano che siamo nati come reazione a quell’ambiente sanremese o cantautorale di cui ora parlano bene, e reinterpretano brani. Questa storia mi fa venire il voltastomaco. La merda rimane merda e io non mi sento italiano, ma cittadino musicale del mondo.”

(indietro)