THE MAN MACHINE
La techno di Detroit secondo i Dirtbombs

Detroit in ruins, titola un servizio fotografico bello e raggelante sul sito dell'Observer: teatri, biblioteche, chiese, scuole, alberghi, sale da ballo, commissariati e persino la stazione ferroviaria, abbandonati e sventrati come se il tempo prima si fosse fermato, e poi avesse ricominciato a erodere lentamente i resti di una civiltà scomparsa. From Motown to Growtown, titola un reportage sempre dell'Observer, che documenta come la metropoli del Michigan stia lentamente provando a rinascere dalle sue ceneri, riconvertendo le numerose aree dismesse in orti urbani, dei quali pare sia diventata la capitale mondiale.
Se tutto ciò possa raccontare a mo' di favoletta i nostri tempi, stesi fra passato industriale di grandi promesse non sempre mantenute, presente di crisi nera e futuro che non può che ripartire dal basso, questo non lo sappiamo. Certo suona buffo che l'ultimo tributo a una delle città più musicali degli Stati Uniti e del mondo intero, il nuovo album dei Dirtbombs di Mick Collins, sembri riprodurre in scala il medesimo percorso. Solo apparentemente a ritroso, in realtà intrecciato in una serie di combinazioni e lungo alcuni fili rossi molto resistenti: dalla tecnologia all'uomo, e viceversa; dal futuro immaginato al passato recuperato; dalla gioventù alla maturità.
Ora, i fan del gruppo di più stretta osservanza garagista (se ancora ce ne sono, nonostante un'evidenza dei fatti in forma di quattro album, mille singoli e decine di cover eretiche) staranno probabilmente pensando a un disco di pezzi firmati Stooges, MC5 e Alice Cooper, piuttosto che a uno di classici techno firmati Derrick May, Juan Atkins, Kevin Saunderson e Carl Craig. Ma è proprio qui il bello. E le sorprese non sono finite, con Collins all'altro capo del telefono.

Party Store sembra chiudere un cerchio aperto da Ultraglide in Black dieci anni fa: allora il soul e il funk con cui sei cresciuto, oggi invece la techno, il genere più detroitiano che ci sia. Hai vissuto il fenomeno in diretta?
Assolutamente! Il mio interesse per la musica elettronica va molto indietro nel tempo: la mia primissima registrazione furono due pezzi techno. Era il 1988, più di un anno prima del debutto dei Gories.

Questa sì che è una notizia!
Suonavo con mio nipote, che era un dj e aveva molti dischi di effetti sonori: lui ai piatti e io ai sintetizzatori, ci chiamavamo Plasmaføn. Andammo in studio e ne uscimmo tre giorni dopo con i due lati di un 12”. Non riuscii a trovare nessuno che lo facesse uscire su vinile, ma trovai un dj che lo suonò alla radio.

I fan di solito tendono a pensare che un musicista che suona un certo tipo di musica ascolti solo quella, e spesso non è vero...
A Detroit ascoltiamo tutti ogni genere di musica. Quando venni in tour in Europa per la prima volta, nel 1992, fui molto sorpreso dal vedere che la gente che amava il punk-rock non amava altri tipi di musica underground, come la dance underground. È sempre musica non mainstream, che c'è che non va?

Perchè ti piacque la techno?
Perchè la puoi ballare. A Detroit vogliamo musica che si possa ballare prima di ogni altra cosa. E se non si può ballare, deve comunque essere potente, avere un beat forte. La dance che c'era in giro non aveva un beat abbastanza forte per noi. Naturalmente mi piacque anche il fatto che fosse musica nata nella mia città, suonata da gente della mia città. Ci arrivai un po' in ritardo a dire il vero, le prime cose che mi piacquero in realtà furono quelle della Trax, la acid house di Chicago. Ma quando sentii gli Underground Resistance andai completamente fuori di testa. Capii da subito che era lì che volevo andare, che erano quelli i dischi che volevo comprare. Cominciai ad ascoltare tutti i ragazzi di Detroit, cominciai a comprare tutta quella roba, passavo attraverso fasi in cui magari per un mese compravo solo punk e new wave, e il mese dopo solo house e techno.

Hai conosciuto i vari produttori e dj cittadini?
Non al tempo, ma nel corso degli anni. A quei ragazzi piace il rock, venivano a sentirmi suonare! Mike Banks è venuto a un po' di concerti dei Gories, tutti loro almeno una volta hanno visto i Dirtbombs: Juan Atkins, Kevin Saunderson. Ma all'inizio non avevo idea che quei tipi che vedevo nel pubblico fossero gli stessi che facevano i dischi che compravo! Era divertente, magari avevo un concerto e c'era Mike Banks nel pubblico, e la sera dopo ero io che andavo a sentire gli Underground Resistance! DJ Rolando invece era ancora troppo giovane per entrare nei club.

In che club si andava a ballare?
La maggior parte delle volte erano feste clandestine, warehouse parties, cose alla vecchia maniera organizzate tramite passaparola. Chiamavi un numero e ti davano indicazioni, arrivavi al posto e ti dicevano: “Ok, il party è in quest'altro posto”. Li sentivo tutti lì, soprattutto Rolando... non penso di aver mai visto Rolando suonare in vero club!

Quando è nata l'idea di questo omaggio ai grandi della techno?
Molto tempo fa, ma non pensavo fosse possibile realizzarla. Siamo un gruppo rock, e quelle non sono proprio canzoni rock. Hanno molte più tracce strumentali di quante non ce ne siano nei Dirtbombs, che oltre ai due batteristi hanno solo due chitarre e un basso. Strings of Life ha qualcosa come venti sintetizzatori che suonano contemporaneamente Ho tenuto da parte l'idea per sette o otto anni, insomma; poi ci ho ripensato e ho deciso di provarci, e ha funzionato. Ma è stato molto difficile. Abbiamo suonato ciascuna canzone dal vivo in studio per qualche minuto, e ne sono venute fuori delle registrazioni orrende. Mi sono assicurato che la batteria avesse un buon suono, ho mandato tutti a casa e ho finito il disco da solo (di risata rumorosissima segnaliamo solo questa, ma ce ne sarebbero molte di più - ndr).

Metà rock'n'roll e metà computer, quindi.
Sì! C'è stato bisogno di molto editing, ma nessun suono è creato al computer. C'è solo un po' di sintetizzatore qua e là, e Carl Craig è venuto a suonare sulla sua Bug in the Bass Bin. Non pensavamo venisse, c'era una tempesta di neve molto brutta quella sera. Si è presentato alla porta con una grossa valigia: “Hey Carl, come va? Che ci fai con quella valigia?”. La apre, e dentro c'è un sintetizzatore modulare... all right! Lo abbiamo collegato direttamente al mixer, Carl ha girato delle manopole per una mezz'ora, abbiamo chiacchierato un po', abbiamo bevuto un paio di bicchieri di vino e se ne è andato.

Parliamo di un grande della musica moderna.
Sono entusiasta della sua partecipazione. Non avevo idea dell'ampiezza della musica che ha prodotto, ma da quando abbiamo cominciato a quando abbiamo finito Party Store ho imparato un sacco di cose su di lui e sulla sua discografia. Ha anche fatto uno dei miei remix preferiti di tutti i tempi, per Polyesterday dei Gus Gus, fantastico.

La sua presenza suona come una garanzia di qualità, per chi segue la techno.
Può essere, ma quel pezzo è così diverso... Carl stesso è noto per fare cose molto varie, dalla dance al jazz ai suoi due album per la Deutsche Grammofon. Per il pubblico techno avrebbe significato molto di più se ci fosse stato Mike Banks. Lo abbiamo invitato, ci abbiamo provato, ma non ce l'ha fatta. Abbiamo chiesto anche a Juan Atkins, ma nulla da fare anche con lui. Però è venuto a trovarci in studio mentre registravamo, c'è un video da qualche parte di Juan seduto dietro di me al mixer, mentre cerco di capire come fare Strings of Life! Non so cosa pensi del disco, non lo ha sentito finito e mixato, ma penso apprezzi comunque il nostro coraggio.

Agli altri del gruppo piace la techno?
Erano soprattutto contenti di registrare un nuovo disco, nessuno di loro ascolta dance quanto me. Ora sto a New York, ma quando abitavo a Detroit avevo una residenza in un club come dj, e quando è uscito We Have You Surrounded (il precedente album dei Dirtbombs, del 2008 - ndr), nella stessa settimana è uscito anche un mio 12” tech-house, una stampa molto limitata andata esaurita in meno di dieci giorni. Sto preparandomi a registrare di nuovo, ho sentito proprio Carl qualche giorno fa: “Non mi avevi promesso un singolo per Natale?”. Me ne ero completamente dimenticato, merda! Così gli ho promesso di darglielo entro la fine di gennaio, e presto andrò in studio a registrare un 12” per Planet E, l'etichetta di Carl Craig!

Dal di dentro: in cosa la techno di Detroit è diversa da tutte le altre?
È più astratta, suona come un registratore di cassa che esplode, o qualcosa del genere; un rumore strano con un ritmo dance pesante, ed è questo che mi attrasse originariamente. Rifletteva il crollo della città, era la colonna sonora perfetta della città che ti crollava intorno. Uscivi in pieno giorno, guidavi ascoltando quei pezzi e fuori dal finestrino era tutto distrutto.

La decadenza di Detroit comincia in quegli anni?
No, lo stato in cui è ridotta Detroit adesso comincia negli anni '50. Dopo la guerra avevamo una capacità manifatturiera pazzesca: potevamo fare un aereo in due giorni e un carrarmato ogni paio d'ore, ed eravamo riusciti a trasferire quell'abilità nell'industria automobilistica. Ma gli investitori più accorti capirono che non saremmo stati in grado di reggere a lungo, e cominciarono a lasciare la città. A molti piace dire che i problemi di Detroit cominciarono con la rivolta del 1967, ma non è vero. La rivolta fu un sintomo, non la causa. Gli investitori se ne stavano già andando, erano già quasi del tutto andati.

Come era crescere a Detroit in quegli anni?
Sono nato nel 1965, e sono cresciuto in una città ancora in forte declino. Eppure, mi piacerebbe poter dire che era tutto molto triste, terribile e brutto, ma non lo era. Mi sono divertito da ragazzo. La radio era fantastica, per esempio: Detroit ha sempre avuto delle radio eccezionali, i dj erano liberi di suonare qualunque cosa, rock indipendente, musica da altre nazioni, musica locale. Ho avuto una discussione con la mia ragazza di recente, perchè non avevo idea che Madonna stesse ancora facendo dischi, non pensavo fosse ancora in giro. Puoi ascoltare le radio locali passando da una stazione all'altra per una settimana di fila senza sentire una singola canzone da top 40! I miei ricordi di teenager nella Detroit degli anni '70 sono abbastanza incentrati sul punk, pareva che tutti i ragazzi della città fossero in un gruppo punk. Mi chiedono spesso come mai io sia un nero che suona punk-rock: non sono l'unico nero di Detroit ad aver mai suonato punk-rock, sono solo l'unico rimasto!

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