BASS CULTURE
“È il battito del cuore/questo pulsare del sangue/che è un basso gorgogliante”. Non potevano che essere le parole del sommo poeta dub Linton Kwesi Johnson, che così intitolò nel 1980 un suo album e il brano che lo apriva, ad intitolare ed aprire quattro pagine dedicate proprio allo strumento in questione e a due dei suoi numerosi amanti. Due uomini diversi, accomunati dal suddetto amore e dall’aver costruito intorno alle quattro corde la loro carriera di musicisti.
Chi, come l’americano Joe Lally, arrivando alla sintesi di un debutto solista come There to Here (recensione sul prossimo numero) dopo quindici formidabili anni da spina dorsale dei Fugazi. Chi, come l’inglese Squarepusher, affermandosi pioniere anticonformista dell’elettronica moderna e rimettendo col tempo il basso al centro del suo fare musica, fino a un decimo album come Hello Everything (recensione in questo numero). A entrambi abbiamo chiesto di raccontare questo amore, e non solo.



JOE LALLY
I am the Pasta

Pur se taciturno e defilato sui palchi messi ferro e fuoco da MacKaye e Picciotto, è impossibile sottovalutare il peso di Joe Lally nell’economia del suono Fugazi. Presenza, ancora prima che tecnica pura. Come il lavoro del mediano che non vedi mai ma quando manca te ne accorgi, le linee possenti tracciate dal suo MusicMan hanno da sempre guidato la corazzata di Washington DC. Fino a quando…
“I Fugazi hanno deciso di prendersi una pausa. Non stavamo facendo concerti, né provando, né registrando, ma continuavano a venirmi in mente tanta musica e tante parole. Così ho cominciato a metterle insieme, provando a ricostruire quello che mi stava venendo in mente. Ma ero abituato a suonare con Guy, Brendan e Ian, e ho dovuto quindi impararare a scrivere una canzone intera da solo. Per esempio, non sapevo scrivere musica seguendo parole già esistenti, i Fugazi hanno sempre scritto prima la musica e poi, a cose fatte, i testi. Ho dovuto esplorare. Ho preso un po’ di lezioni di piano, non troppe, e penso di aver imparato qualcosa sul songwriting. Ci ho guadagnato in conoscenza. Al momento più o meno tutto quello che mi viene in mente lo posso suonare e ci posso cantare sopra. Di una linea di basso magari penso ‘Ok, è un po’ difficile, ma se continuo a suonarla prima o poi riuscirò anche a cantarci sopra’. Adesso devo lavorare solo con me stesso.”

I Fugazi invece hanno sempre avuto un’aria da jam band, da gruppo che tira fuori pezzi finiti da ore di improvvisazione in sala prove. No? “Non del tutto, anzi. Arrivavamo spesso alle prove con cose nostre, che insieme sviluppavamo lavorando… e lavorando… e lavorando! Per la maggior parte del tempo prendevamo parti molto specifiche dei pezzi e ci lavoravamo senza sosta, fino a che non diventavano esattamente come volevamo. Ora invece voglio le cose semplici, una o al massimo due parti in una canzone, non di più. È completamente diverso, molto strano. Con i Fugazi lavoravamo insieme alla musica, ora invece se scrivo una linea e imparo a cantarci sopra, inserisco gli altri strumenti solo nella misura in cui mi permettono di fare ciò di cui ho bisogno. Non devono essere complicati, mi confondono. Ora posso dire al batterista che non può suonare troppe cose o troppo simili alle mie, perché mi confonde! Deve suonare in manera fluida, fuori da quello che sto facendo!”

Di lezioni di piano forse sì, ma di lezioni di umiltà questa gente non ha bisogno, e lo si sapeva. Se non bastasse quanto detto fin qui, ecco le riflessioni di Joe sul realizzare probabilmente solo ora l’enorme valore degli altri tre come musicisti: “In realtà ne ero cosciente da moltissimo tempo. Con Repeater cominciammo a scrivere tutti e quattro insieme, e divenni dolorosamente conscio di quanto bravi fossero gli altri. E delle mie carenze tecniche (avete letto bene – ndr). Ma capii quale era il mio ruolo nella band, e quando molti anni dopo ho cominciato a scrivere canzoni da solo… è stato devastante. Anche solo pensare che adesso dovevo trovare il modo di fare tutto questo da solo. Un compito a tratti scoraggiante, come un muro troppo alto da scavalcare. Ma appena mi sono reso conto della sfida, ho sentito che dovevo accettarla”.
Soddisfatto dei risultati? “È un processo nel quale sono ancora coinvolto, sto ancora imparando, sto ancora ascoltando le canzoni che sento in testa e provando a capire come farle venire fuori. Mi sono impegnato, ed è nato questo disco. Ma è stato estremamente difficile. Per quello che ho detto, e perché il semplice fatto che i Fugazi non suonassero più mi ha fatto passare momenti psicologicamente durissimi. Penso che con il nostro ultimo album stessimo appena cominciando a diventare bravi nel fare dischi. È il migliore. Abbiamo lavorato durissimo a ogni canzone, e ne abbiamo ottenuto un ottimo disco. Pensavo avessimo realizzato un nuovo punto di riferimento per il nostro lavoro, e che potessimo farne tanti altri così buoni. Purtroppo posso solo parlare come un quarto della band, ma io sono pronto per fare il nuovo disco! È  che sono rimasto solo, siamo solo io e il mio basso adesso!”

Parole che parrebbero pesanti, ma che la risata di Joe rende lievi ed affettuose. Oltre a Jerry Busher (French Toast), Amy Farina (Evens), Eddie Janney (Rites Of Spring), Jason Kourkounis (Hot Snakes, Delta 72) e a una leggenda come Scott “Wino” Weinrich (Saint Vitus, The Obsessed, Spirit Caravan) infatti, anche MacKaye e Picciotto figurano fra gli ospiti di There to Here. Quasi una riunione! “Ho anche registrato la sezione ritmica di un pezzo con Brendan, ma purtroppo non ha funzionato. Ho finito per registrare di nuovo la canzone in una veste più tranquilla, così come ho fatto con circa metà album. Un set di percussioni invece di una batteria completa. Anche Brendan quando ha sentito la versione suonata da Jason Kourkounis e me ha capito, ed è stato d’accordo. Ma mi è spiaciuto molto non avere anche lui sul disco.”
E dal vivo? “Quella delle tre date italiane la scorsa estate è stata la cosa più vicina a una band che ho avuto: due bassi (io e Massimo Pupillo degli Zu) e una batteria (Gioele Pagliaccia), ed è stato fantastico. Altrimenti ho solo suonato con un percussionista, e all’inizio completamente solo. Io con il basso e il microfono. È stato difficilissimo, ma è così che la musica ha preso la sua strada. Alcune canzoni sono rimaste tali e quali, solo basso e voce. E una addirittura solo voce.”

Per quanto ne sappiamo, Joe Lally potrebbe essere nato con un basso a tracolla… “Ho cominciato tardi invece, diciannovenne. Decisi di formare un gruppo con un amico, lui disse che avrebbe cantato, io dissi che avrei suonato il basso. Così comprai un basso e un amplificatore, andai a casa sua e cominciammo a suonare hardcore.” Perché proprio il basso? “Avevo capito il suo ruolo nella musica. Avevo un’idea, sviluppata ascoltando reggae, Joy Division e PIL. Loro mi rivelarono quanto il basso potesse essere molto semplice e insieme sostenere da solo un’intera canzone. E la cosa mi piacque. Nel reggae in generale, e nel dub in particolare, il basso sta davanti e ha un ruolo fortissimo. Le linee di basso di Joy Division e PIL sono molto groove oriented e non cambiano molto all’interno del pezzo. Peter Hook e Jah Wobble sono stati importantissimi per me, ascoltarli mi ha fatto decidere di prendere il basso ed suonare in un gruppo.”

Ma cosa rende speciale lo strumento? Se dovessimo spiegarlo a qualcuno che non lo conosce? “Parlavo l’altro giorno con gli Uzeda, e cercavo di spiegare come vedo la musica. Ho detto che il basso è come la pasta per la pizza. Davide, il loro batterista, ha aggiunto che la batteria è come il fuoco, sotto la pizza. La chitarra è ciò che sulla pizza ci metti, magari il pomodoro, magari la mozzarella o il prosciutto (dice gli ingredienti in italiano, tradendo una familiarità con la nostra lingua spiegata dalle sue nozze con la fotografa Antonia Tricarico – ndr), o qualunque cosa tu metta di solito sulla pizza. Il sapore che le dai. Ma il basso è la pasta. Per me che sono un musicista autodidatta, questa consapevolezza è la visualizzazione stessa del concetto di musica. Mettendo giù una linea di basso nei Fugazi, sono sempre stato conscio di rappresentare le fondamenta. I am the pasta, e questo permette alle chitarre e alla batteria di essere libere, totalmente libere. Oggi la mia idea è la stessa, ma incorpora anche la voce. Il basso e la voce sono il fulcro della mia musica, e voglio trovare musicisti che riescano ad aggiungere un po’ della loro personalità senza bisogno di sentirsi dire cosa fare. ‘Questo è quello che sto facendo, suona con me’.
La prima sera con Massimo e Gioele avevamo preparato note scritte per ogni canzone. Avevamo alle spalle solo un’ora di prove, durante la finale dei mondiali di calcio! Volevo vederla, ma era l’unico momento disponibile per tutti e tre! Il giorno dopo abbiamo suonato, era il mio primo concerto con un set di batteria completo dall’ultima data dei Fugazi. Tutto era troppo rumoroso, e qualcosa non andava, non era corretto. La notte seguente non ho dato agli altri una scaletta, potevano soltanto suonare su quello che facevo io. Reagire con me. Ed è stato il concerto migliore. Suonavamo organicamente, e suonavano ciò che per loro era naturale fare con quello che facevo io. Per questo adesso chiedo di suonare con batteristi e chitarristi jazz o d’avanguardia. Non hanno bisogno di conoscere la mia musica così bene, possono letteralmente reagire con quello che sto facendo, ed è questo che mi interessa. Sul disco ci sono canzoni, ma non devono trattarle come tali, devono sentirne il nocciolo, quello che canto e suono io. Il disco è solo un modello di base, un blueprint.”

Dice proprio blueprint, e passato il millisecondo di struggimento per quella canzone e quelle parole vecchie di diciassette anni, torniamo sul basso. Dita o plettro? “Ho sempre suonato con il plettro, e non ho mai cambiato. A volte quando il pezzo è abbastanza lento suono con il pollice: è morbido, l’attacco è bellissimo. Per come suonano le mie cose adesso dovrei proprio suonare con le dita, ma non ho mai sviluppato l’abitudine.” Amplificatore? “Testata Euphonic Audio iAmp 500, cassa sempre Euphonic Audio con un cono da 12” e un tweeter. Piccola, ma con dei bassi eccezionali.” Basso? “Un Gibson EBO a scala corta con corde flatwound, vecchissimo. Cerco di usare bassi fatti per suonare come contrabbassi acustici, e all’inizio i bassi elettrici erano proprio fatti apposta. Quando abitavo a Los Angeles però ho provato un Höfner, quello che usava Paul McCartney, ed ha il più bel suono che abbia mai sentito. Sto per comprarne uno. Ci ho messo anni a mettere via i soldi, sono carissimi!” Basso d’epoca? “Macchè! Lo prendo nuovo, quelli d’epoca sono troppo cari, costano fino a 3000 dollari!”
Alla faccia di chi si lamentava delle diecimila lire per vedere i Fugazi, l’ultima volta.



SQUAREPUSHER
Melodia e intimidazione

“Scusa ancora, ma Tom non è la persona più facile con cui lavorare…”, dicono alla Warp. Tom Jenkinson è Squarepusher, e le circostanze del colloquio confermerebbero la tesi dell’orso che comunica solo via mail e detesta le interviste. Ma basta parlare di bassi e il genio scontroso dell’elettronica si scioglie. Via mail, ma non si può avere tutto. “Il mio primo strumento è stata la chitarra classica, a dieci anni. Ma il primo ad avere un significato è stato il basso, un anno dopo. Tutti hanno familiarità con la voce cantata e quasi tutti possono identificare una chitarra, ma il basso è più misterioso. Il suo registro è familiare, ma il suono è sempre nascosto sul fondo. Mi ha attratto questa strana periferia sonora.”
La solita vecchia storia insomma: bassista che conta giusto poco più del batterista, chitarrista e cantante a farsi fotografare. “Una delle cose più apprezzate nella musica contemporanea è l’estroversione, e dato che i bassisti hanno di solito mansioni di accompagnamento tendono a non essere notati. Dal punto di vista sonoro il basso è importantissimo, ma l’opinione generale sul valore di un musicista è basata su impressioni superficiali più che sull’analisi del suono. Molti sono stati sorpresi dai miei concerti fatti usando solo un basso, e per quanto ridicolo possa sembrare dimostra il fatto che l’obiettivo generale della gente, quando ascolta musica, non è l’analisi del suono.”

Anche Tom avrà avuto bassisti preferiti o influenti sul suo modo di suonare. Nomi? “Quelli che con il basso hanno fatto cose non da basso. Il primo ad andare oltre è stato John Paul Jones. Ho appreso i miei rudimenti di basso da Led Zeppelin II, il suo suonare parti complesse con un approccio rilassato mi conquistò subito. Un altro era Cliff Burton dei Metallica. Molto eccentrico, quei primi tre album sono pieni delle sue strane decorazioni melodiche. L’assolo bizzaro su Anesthesia soprattutto, che combina rock da motociclisti, armonie gotiche e noise industriale. Uno davvero avanti è Colin Hodgkinson dei Back Door sull’album Back Door del 1973 (quando si dice una citazione… - ndr), riesce a intrecciare linee di basso e melodie con la massima facilità.
Ultimamente mi ha impressionato il bassista dei Lightning Bolt. Ha una potenza scioccante, e considerata anche la sua ottima tecnica sui tasti è davvero devastante. Uno dei problemi con i musicisti, chitarristi e bassisti in particolare, è che purtroppo i migliori spesso finiscono per fare musica orribile. Musica da musicisti che somiglia più allo sport che alla musica generalmente intesa. Sembra ci sia una regola per cui i musicisti tecnicamente avanzati tendono a suonare in gruppi che solo altri musicisti ascoltano. Le abilità molto sviluppate risultano per natura ostiche alla maggior parte della gente, e possono allontanare il pubblico. Per questo la sfida è essere il più abile possibile tecnicamente e non farne un segreto, ma allo stesso tempo rendersi accessibile a un pubblico che non sia solo quello dei musicisti. Per fortuna non tutti ai miei concerti hanno barba, occhiali e taccuino a portata di mano… vorrà dire che ci sto riuscendo!”

C’è un percorso visibile nella produzione discografica di Squarepusher? Concentratevi. Pronti, via:“Ho letto nelle note di Pet Sounds che Brian Wilson voleva organizzare i suoni dell’album in modo che l’audience si sentisse amata. Nel ‘98 lo trovai toccante, ma era un sentimento lontano dalle mie intenzioni, più rivolte a stimolare e sorprendere. Ero troppo concentrato sullo spingere a mettere in discussione le idee musicali convenzionali per prendere quelle parole sul serio. In passato ho avuto opinioni radicali sugli aspetti apertamente melodici delle mie cose, condizionato dal modo in cui i miei primi dischi sono stati accolti.
I pezzi che piacevano di più erano quelli in cui emergeva l’aspetto melodico, ma il fatto che potesse essere una scorciatoia per il successo mi mise di fronte a un bivio: capitalizzare su questa abilità e continuare a generare dischi popolari, con lo svantaggio di negarmi la libera esplorazione? O abbandonare il concetto di melodia esplicita esplorando modi alternativi di costruire musica, con il probabile rischio di terminare la mia carriera se nessuno avesse apprezzato? La possibilità di mantenermi con la musica era in pericolo. Ma l’opzione capitalista mi disgustava, più che altro perchè noiosa. Avrei potuto continuare a produrre tanti Big Loada per sempre, ma mi sarei annoiato in fretta.
Quindi la scelta: piuttosto di sfruttare questa abilità melodica all’infinito decisi di sopprimerla, per cercare nuovi metodi. Dopo Big Loada ho tentato di fare a meno della melodia per raggiungere un punto focale nei pezzi. E proprio lì è cominciato anche il mio sistematico ignorare ogni recensione. Da allora non guardo i dati di vendita dei miei dischi, per non sapere quali sono piaciuti e quali no. Tuttora non lo so, e francamente non mi interessa. L’unico modo che vedo per restare fedele al mio intento è isolarmi dalle influenze esterne (anche se la cosa ha i suoi azzardi: l’immaginazione riempie i buchi quando la conoscenza si ferma).
Ma il mio ignorare deliberatamente la pubblica opinione non viene dalla disattenzione verso il mio pubblico; viene dalla consapevolezza della mia fallibilità. So di essere facilmente persuasibile, e non voglio quindi opinioni esterne che mi distraggano dai miei esperimenti. Ho bisogno di perseguire i miei obbiettivi il più possibile da solo, per essere sicuro della validità dei risultati. Un paio di anni fa però ho cominciato a pensarla diversamente: ho di nuovo considerato l’uso di contenuti melodici tradizionali, stavolta ispirato dalle parole di Brian Wilson. Nei miei primi dischi ho usato la melodia ad hoc, dove sembrava stesse bene. Oggi ho cominciato a usarla ed esplorarla intenzionalmente, a fare musica specificatamente per la gente. Non dico che farà sentire qualcuno amato, è troppo semplice. Ma ho tentato di rendere le mie idee tangibili per ascoltatori senza apprendimento specialistico, attraverso il compromesso della melodia. La critica è che nel diluirle, queste fondamentalmente cambiano e non sono più le stesse idee. In ogni caso: sono rappresentate in modo più completo su altri dischi, ma spero che Hello Everything possa introdurle in maniera meno intimidatoria.”


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