ARCTIC MONKEYS
La conquista del West

L’avvisaglia: una copertina del New Musical Express di fine maggio. Titolo che parla esplicitamente di “una band cambiata”, e fotografie che ne forniscono la prima dimostrazione. Basterebbe questa, meno superficiale di quanto non si pensi, per rendersi conto che gli Arctic Monkeys di oggi sono diversi dagli Arctic Monkeys di ieri. Le immagini sono abbastanza spiazzanti, e mostrano quattro ragazzi assai lontani dalle sensazioni teen-pop britanniche in Fred Perry e ciuffo che avevano fatto irruzione nelle classifiche solo tre anni fa, e alle quali eravamo abituati. L’unico a sembrare lo stesso è il batterista Matt Helders, zazzera sempre a due centimetri e felpa col cappuccio. Si dice sia diventato il nuovo migliore amico di P. Diddy, coppia decisamente bene assortita. Gli altri tre hanno tutti i capelli lunghi, l’aria vissuta e i vestiti perfettamente casual dei rocker consumati. Il chitarrista Jamie Cook ha persino la barba. Solo il cantante, chitarrista e autore Alex Turner appare un po’ a disagio nel ruolo, forse per i lineamenti e l’espressione ancora molto adolescenziali. Ma è un’impressione. Sullo sfondo, i tetti e le strade di New York. Habitat nel quale i nostri paiono tutt’altro che fuori posto.

Li incontriamo all’ora di pranzo in un pub di Wandsworth, zona tranquilla di nuove unità residenziali e uffici sulla riva meridionale del Tamigi, a due passi dalla sede della Domino. Qualche ora prima, in un salottino della stessa sede, abbiamo avuto modo di ascoltare Humbug, il loro terzo album uscito da qualche giorno, al momento dell’intervista ancora protetto da misure di sicurezza degne dei codici nucleari sovietici. Bizzarro, per un gruppo che proprio sulla circolazione capillare delle proprie canzoni in rete, prima ancora di avere un contratto discografico, ha basato gran parte delle proprie fortune iniziali. E che su quella cospicua dote di accessi ed entusiasmo ha costruito una carriera, dagli ormai leggendari concerti iniziali in cui tutti conoscevano le canzoni per averle sentite su MySpace, fino al rango di stelle odierno. Che venderli come “il primo gruppo diventato famoso grazie a Internet”, o come diavolo era, fosse soltanto una ottima trovata di marketing arrivata al momento giusto? Oppure i tempi cambiano per tutti?
L’argomento non scalda le due Scimmie a nostra disposizione, Cook e il bassista Nick O’Malley, entrato in formazione nella primavera del 2006 dopo l’uscita di un acclamatissimo primo album (Whatever People Say I Am, That's What I'm Not) e di un EP di poco seguente (Who the Fuck Are Arctic Monkeys?), in sostituzione del membro fondatore Andy Nicholson. Non un rincalzo qualunque, lo si è capito subito, anzi il più loquace e disinvolto della compagnia. Meglio andare dritti alla sostanza di Humbug, dunque. Dieci canzoni che, ci raccontano, arrivano innanzitutto dopo qualche mese di meritato rompete le righe. Sono due anni che vanno al massimo, tutto sommato. Durante la pausa, Turner ha stupito un po’ tutti con l’esordio dei Last Shadow Puppets, ovvero lui e l’amico Miles Kane dei Rascals. Un album (The Age of the Understatement, 2008) da molti addirittura preferito a quelli della band principale. Helders ha fatto il dj (suo anche un volume della serie Late Night Tales) e partecipato al progetto Mongrel insieme al vecchio socio Nicholson e vari altri. Loro due invece? “Io ho viaggiato molto,” spiega Cook, “soprattutto in Africa e America meridionale. Sono andato in cerca di animali selvaggi, sono un grande amante degli animali. Ho fatto un sacco di foto, e voglio provare a farne un libro se trovo chi lo pubblica.” “Io invece,” continua O’Malley, “ho fatto vita casalinga, mi sono rilassato. E ho imparato a guidare. Stavamo in giro da così tanto che avevamo bisogno di fermarci e prenderci una pausa, avere tempo per famiglie e amici, fare ogni genere di cose normali. Dopo un po’ senti il bisogno di tornare nel posto da cui vieni, vedere gli amici coi quali sei cresciuto. Se non lo facessi mai perderesti la testa, la concentrazione, diventeresti un po’ pazzo, socialmente parlando. Sarebbe pericoloso.”
Il luogo del raduno ufficiale, nel luglio scorso, è una fattoria del Suffolk. Rinvigorito, il quartetto ricomincia a provare, e a mettere sul tavolo le canzoni abbozzate nel frattempo. La voglia di suonare è tanta, le sessioni sono energiche come mai prima, il gruppo è via via più entusiasta di quello che ne viene fuori. Il primo giorno, secondo il racconto di Turner, è passato quasi interamente “sul riff più complicato mai sentito, una cosa in sette ottavi e mezzo. Alla fine lo abbiamo usato nell’introduzione di un pezzo, ma era così complicato… sembrava un riff dei Black Sabbath!”

Sembrerebbe anche una boutade, e invece non lo è. Le operazioni si spostano negli Stati Uniti di cui sopra, dove i ragazzi vanno innanzitutto a registrare, prima che a farsi fotografare. E l’aggressività dei primi demo trova una sponda sulla carta insolita in Josh Homme dei Queens Of The Stone Age, addirittura. “Siamo sempre stati,” spiega O’Malley, “fan suoi, dei suoi gruppi e delle Desert Sessions. Ci eravamo già incontrati durante vari festival, poi una volta in Texas abbiamo suonato noi e subito dopo i Queens Of The Stone Age, ed è nata un’amicizia. Quando è stato il momento di pensare al nuovo album, Laurence Bell della Domino ci ha chiesto con chi volessimo farlo. Sapeva che Josh ci piaceva molto e ci ha proposto il suo nome. Noi abbiamo detto di sì, chiaramente! Abbiamo mandato a Josh alcuni demo, gli sono piaciuti e la cosa è andata in porto”.
Si parte per la California, quindi. Gli Arctic Monkeys sbarcano all’aeroporto di Los Angeles con una chitarra a testa e null’altro: “Questo volevamo, allontanarci il più possibile dalla situazione in cui eravamo prima”. Il lavoro comincia nello studio cittadino di Homme, il Pink Duck di Burbank, e si sposta per gli ultimi quattro giorni al celebre Rancho De La Luna, teatro delle Desert Sessions, avamposto di Josh e cricca nel deserto del Mojave, località Joshua Tree. Date un’occhiata con Google Maps, c’è pure l’opzione street view: la distanza dallo Yorkshire natio, dove a settembre già piove che Dio la manda, è lampante. Non solo in termini di migliaia di chilometri. L’allontanamento non può essere soltanto fisico.
“Josh ci ha detto che sarebbe stato un posto perfetto,“ racconta ancora Nick, “che saremmo dovuti andare a registrare lì e che sarebbe stata una grande esperienza. Non volevamo diventare una copia dei Queens Of The Stone Age, è ovvio, ma ci piacciono le loro sonorità, i toni che ottengono dai loro strumenti, le loro atmosfere. Abbiamo preso, noi e Josh, la cosa come un esperimento. Andiamo e vediamo come va. Ed è andata benissimo.”
Così tanto che vengono prenotate altre due settimane con Homme a dicembre, senza passare da Burbank. E si comincia a fare sul serio. Il padrone di casa mette strumenti ed amplificatori di varie epoche, e consiglia ascolti fino ad allora mai provati sul serio. Jamie scopre Roky Erickson e i Creedence Clearwater Revival, per esempio: “Josh ci ha fatto conoscere un sacco di gruppi americani, non è che ci fossero mai piaciute particolarmente quel tipo di cose. I Creedence li ha messi su in macchina mentre andavamo a Joshua Tree per la prima volta, ricordo Suzie Q soprattutto… sono semplici, essenziali, il suono della chitarra è meraviglioso.” Dovendo scegliere, Nick opta invece per Gram Parsons e Flying Burrito Brothers, e riassume: “Penso che siano queste due cose ad aver influenzato principalmente il disco: la musica ascoltata e l’essere in America con materiale americano trovato lì sul posto. Non avevamo i nostri amplificatori e la maggior parte dei nostri strumenti. Tutto questo ha in qualche modo dato un feeling americano molto deciso a Humbug.”
Provare per credere. Non hanno mai suonato così bene, gli Arctic Monkeys, dal punto di vista della grana sonora, degli arrangiamenti, dei dettagli e dell’impatto generale. E non hanno mai suonato così americani, va da sé: potenti, ipnotici, ora psichedelici e ora duri in riff saturi di distorsione e tenuti a bada secondo la lezione del loro mentore californiano. A ben ascoltare i dischi precedenti della band, da quelli citati al secondo album Favourite Worst Nightmare (2007) soprattutto, la vena a stelle e strisce non è però una novità assoluta. Piuttosto, una corrente sotterranea che oggi si è fatta più grossa e difficile da contenere. Non sembri un’eresia, parlando di un gruppo unanimemente considerato fra i più britannici di tutti i tempi, quintessenza dell’adolescenza albionica al tempo della rete e dei cellulari, discendenza diretta di altri poeti della quotidianità inglese come Ray Davies e Paul Weller. Mettete i quattro lads in mezzo al nulla del West, e vedete cosa succede.
“Nessuno di noi era mai stato nel deserto!” Dice Cook. “Anche per questo Josh ci ha suggerito di andare. È il primo posto dove sia stato in cui non è possibile andare a piedi da nessuna parte, devi prendere la macchina per tutto. Cosa facevamo in un piccolo paese in mezzo al deserto? Nulla, a parte suonare.” Continua O’Malley: “È stata un’esperienza molto strana. Il posto è molto diverso da tutti quelli in cui siamo stati prima. Il paesaggio ad esempio è stupendo, non avevo mai visto un posto neanche lontanamente simile. Lì intorno c’erano solo un paio di bar, ci siamo andati un po’ di volte. Una notte questo tipo molto sbronzo ha sentito i nostri accenti, si è avvicinato e tutto incazzato ci ha chiesto se fossimo inglesi. ‘Avete presente quei cazzo di hooligan merdosi? Li ho mangiati stamattina a colazione e li ho già cagati!’ E poi ha provato a sfidarci a biliardo per tutto il tempo. Una serata molto strana. Incontri gente un po’ inquietante in America.”

La fuga verso Ovest per ricominciare da capo, la frontiera come terreno fertile per cambiamenti di pelle e vite nuove di zecca: un classico del Nuovo Mondo. Quanti libri e film parlano in fondo solo di questo? In quei luoghi, Turner e compagnia azzerano e ripartono. Una scelta potenzialmente letale, trapiantarsi altrove e lasciare fluire la creatività, anche senza scomodare il tristemente famoso soggiorno degli Happy Mondays alle Bahamas. Ma che invece dà i suoi frutti. “I primi due album,” ancora O’Malley, “sono stati registrati in maniera molto semplice e veloce. Volevamo essere in grado di suonarli dal vivo con solo due chitarre, un basso e una batteria, e quello c’è: due chitrarre, un basso e una batteria, le canzoni come le suonavamo da sempre. Questa volta invece abbiamo dedicato molto più tempo e attenzione al lato musicale. Abbiamo fatto dei demo, e da quelli siamo partiti per costruire i pezzi in studio con Josh. Abbiamo aggiunto molti strati, più parti di chitarra, più percussioni, più voci, l’organo. Cose che non avevamo mai fatto nei due album precedenti. The Jeweller’s Hands è quella che è cambiata più di tutte: era molto essenziale, solo pianoforte e un semplice riff di basso, ma alla fine è come se si fosse espansa, con xilofono, molte chitarre e molte voci. Altre canzoni abbiamo provato a suonarle in modi molto diversi fra loro, di un paio ce ne sono addirittura tre versioni, con strumenti diversi e parti cambiate. Volevamo che fosse un disco più complesso rispetto ai primi due, che sono molto semplici e diretti.”
E infatti Humbug suona assai meno immediato del solito (il titolo stesso è riferito a “una caramella alla menta molto dura, che ci vuole molto tempo a finire, ma anche a uno scherzo, una bufala, un trucco; qualcosa che appare come qualcosa che in realtà non è”), più meditato, lavorato. Meno concentrato sulle singole canzoni e più sulla musica, sul suono, sulla creazione di un’atmosfera. Ma la sua gestazione non termina nel Mojave. Con una dozzina di tracce in saccoccia, definite da loro stessi come molto pesanti e scure, gli Arctic Monkeys decidono di continuare dall’altra parte degli Stati Uniti, a New York. Sulla costa orientale, le mani che schiacciano i bottoni sono quelle di James Ford. Metà dei Simian Mobile Disco, batterista dal vivo per i Last Shadow Puppets, produttore degli stessi e di Favourite Worst Nightmare, oltre che di Klaxons, Mystery Jets e Peaches. “Volevamo lavorare anche con lui. Ha già prodotto nostri dischi in passato, è un amico e ci siamo sempre trovati benissimo. Lo abbiamo sempre sentito vicino, capisce perfettamente cosa vogliamo, abbiamo sempre ottimi risultati ogni volta che andamo da lui. Non volevamo metterlo da parte. Era in tour negli Stati Uniti con i Simian Mobile Disco, abbiamo pensato che se avessimo registrato a New York avrebbe potuto esserci.”
Ma è per una precisa scelta del gruppo che l’umore del disco cambia, facendosi anche più calmo e sognante. “Dopo aver finito con Josh avevamo un po’ di canzoni non ancora pronte per essere registrate, ma che volevamo provare comunque. Avremmo potuto fare un album tutto scuro e aggressivo, ma poi abbiamo pensato che avremmo preferito qualcosa di più vario, e che con l’aggiunta di altri stati d’animo il disco avrebbe guadagnato. Non solo parti aggressive quindi, ma anche momenti più morbidi e gentili. Alternanza di atmosfere, piuttosto che un’unico feeling.” Compito non facilissimo, stando a quanto dichiarato da Alex Turner in quell’intervista al New Musical Express: “Sembrava che la cosa più difficile fosse scrivere un paio di buone canzoni pop. Ci voleva uno sforzo maggiore, rispetto al continuare su quella linea aggressiva. Ma era più attraente come prospettiva.”
Da quei giorni arrivano cose come Secret Door, Cornerstone e My Propeller, i brani del disco in cui l’ombra dell’esperienza di Turner con i Last Shadow Puppets si fa più ingombrante. E in cui viene certificata l’importanza della stessa come snodo cruciale nella crescita del giovane Alex, e delle Scimmie tutte. Jamie e Nick non si nascondono, e quasi all’unisono cantano le lodi della scappatella: “The Age of the Understatement è un grande album. Certamente ha influenzato il suono degli Arctic Monkeys attuali, la loro roba è molto diversa dalla nostra, ma è pur sempre un gruppo di Alex e suonerà comunque simile. Inoltre, Alex è migliorato moltissimo come cantante, e in questo i Last Shadow Puppets sono stati un’influenza estremamente positiva.” Restando in argomento, è da notare anche l’evoluzione del magrolino frontman del gruppo come autore di testi. Un cameraman che un passo alla volta allarga l’inquadratura. “Il primo album,” ricorda O’Malley, “era molto incentrato su Sheffield, mentre i testi del secondo erano come delle short stories. Questi sono più ampi e liberi, non altrettanto concisi. Alcune canzoni sono ancora basate su cose realmente successe, ma c’è molta più immaginazione, molta più astrazione, più sogno.” Siamo sicuri allora che in quel discorso sulla presunta britannicità a 24 carati delle Scimmie non contassero soprattutto le parole di Alex Turner, e l’accento con cui le pronunciava?
Oggi è lui il più uomo di tutti, e questo spostamento di fuoco dei suoi testi è un’ulteriore prova del distacco simbolico dalla madrepatria in atto, e del coraggioso percorso di crescita intrapreso insieme ai suoi mates. Un rischio da correre, se non si vuole essere considerati a vita un gruppo pop buono per i ragazzini e poco più. Ruolo magari redditizio, ma noioso. “Ha a che fare con la maturità.” Conclude Nick. “Volevamo mostrare, magari nemmeno in maniera conscia, il modo in cui si cresce, si ascoltano altre cose, si cambiano gusti musicali, si comincia a capirne di più sulle tecniche di registrazione e sul fare canzoni insieme come gruppo. Non volevamo ridurci ad essere solo una cosina pop usa e getta, ma espanderci musicalmente.” Degli Arctic Monkeys più adulti, quindi. Complimento o critica? “È bello che la gente lo pensi comunque. Certo può significare entrambe le cose, può anche essere detto in senso negativo: ‘siete cresciuti’, come se in un certo senso non fossimo più divertenti. Siamo due anni più vecchi e siamo cambiati nel frattempo, ma non vogliamo essere seri o cose così. Abbiamo ancora 23 anni, you know!”

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